Regia: Lulu Wang
Soggetto: ispirato al libro The Expatriates di Janice Y.K. Lee
Sceneggiatura: Lulu Wang, Alice Bell, Gursimran Sandhu, Vera Miao
Genere: Drammatico
Cast: Nicole Kidman, Sarayu Blue, Ji-young Yoo, Brian Tee, Jack Houston
Durata: 6 episodi (5 episodi di 50 min ciascuno, 1 di 100 min)
Origine: USA
Anno: 2024
Piattaforma: Prime Video
Nel primo episodio si festeggia un compleanno, i cinquant’anni di Clarke, ma fin dai preparativi il clima non è certo festoso, e guardando l’inizio di questa serie si ha una sensazione di straniamento. Si intuisce che è successo qualcosa di grave a uno dei tre figli di Margaret e Clarke, il piccolo Gus, e che una ragazza, Mercy, ha avuto un ruolo chiave in questa circostanza drammatica: da allora, anche tra Margaret e Hilary, vicine di casa e amiche, le cose sono cambiate. Nel secondo episodio l’enigma si scioglie e il racconto, ambientato a Hong Kong nel 2014, prosegue intrecciando le vite delle tre protagoniste sullo sfondo della cosiddetta Rivoluzione degli Ombrelli, protesta pacifica finalizzata a ottenere elezioni libere dall’ingerenza di Pechino.
L’enigmaticità del primo episodio potrebbe sembrare il solito escamotage, magari esasperato, per suscitare curiosità e aspettativa, ma probabilmente c’è qualcosa di più. Limitandosi a spargere indizi su ciò che è accaduto e a presentare in ordine sparso i personaggi, la regista, Lulu Wang, consegna a chi guarda il filo conduttore dell’intera serie: il fatto reale attorno al quale si snoda la vicenda non è tanto il fulcro della storia, quanto invece l’espediente narrativo per raccontare ciò che in questa serie interessa davvero, ossia la rete di sentimenti che avvolge e lega tutti i personaggi, e in particolare le tre protagoniste. E lo straniamento provato dal pubblico è anche la sensazione per antonomasia degli expats, ormai sempre più numerosi in tutto il pianeta, costantemente in cerca di una loro identità in terra straniera, dove provano a ricrearsi un mondo, stringendo amicizia tra loro e replicando abitudini e stili di vita che coltivavano in patria.
Oltre a essere accomunate dalla loro condizione di espatriate, le tre protagoniste sono unite dal sentimento della maternità, pervaso da tre diverse sfaccettature del senso di colpa: Margaret rimpiange un figlio che non c’è più e si colpevolizza per la propria mancanza di attenzione, che percepisce come la spia di un amore materno insufficiente. Hilary sa che l’età anagrafica le impone di chiarire con se stessa e con David, suo marito, la propria ambivalenza nei confronti della maternità, ma continua a rinviare la decisione, aggrappandosi al pretesto di un matrimonio ormai profondamente in crisi. Mercy si sente responsabile di quanto è accaduto al piccolo Gus e non trova pace, ma nel contempo la sua giovane età la spinge in altre direzioni, quali il lavoro cercato senza un’idea chiara di fondo, l’amore nella sua attuale fluidità, il rapporto con gli altri ancora tutto da costruire, l’aspirazione a quella vita da ricchi che si svolge attorno a lei e dalla quale si sente esclusa. Splendidamente interpretate, le tre figure femminili sono anche le protagoniste di momenti nei quali la tensione si allenta, come quando Margaret e Hilary, nel piccolo locale dove vanno a mangiare il ramen per sfuggire all’opprimente atmosfera della festa di compleanno, ascoltando Heart of glass dei Blondie si tolgono i sandali con il tacco alto e si mettono a ballare a piedi nudi con un’improvvisa, sognante leggerezza; o come quando Hilary cammina frettolosamente per strada reggendo su una spalla un tappeto arrotolato più grande di lei, facendosi largo tra i passanti con quella sorta di trepidazione che prelude a una nuova vita, perché quel tappeto è il simbolo di qualcosa che sta per cominciare, è la prima tessera di un mosaico tutto da comporre, è un sorriso alla vita.
In una città di espatriati non può non esserci discriminazione: gli americani agiati, come Margaret e Hilary, che si spostano con l’autista e abitano nel lussuoso Peak, dal quale si gode una vista spettacolare dell’intera città, provano a intrattenere rapporti paritari e perfino amichevoli con chi lavora per loro, senza mai riuscire, però, a liberarsi da un atteggiamento di condiscendenza e talvolta anche di insofferenza. Non a caso, all’epoca della Rivoluzione degli Ombrelli, molti immigrati filippini, per lo più donne, simpatizzavano con i manifestanti, e Lulu Wang ci introduce nella loro vita con un episodio della serie, il penultimo, che si apre con un canto corale dall’intensità evocativa di un gospel. Obbligate per legge a vivere con i loro datori di lavoro, le domestiche non hanno una casa tutta loro e nella giornata di libertà si riuniscono nei parchi o per strada, anche sotto la pioggia, condividendo cibo, aspettative e delusioni, e confidandosi i pettegolezzi sulle rispettive famiglie che le ospitano, ma in certi casi anche l’affetto che le lega a loro.
La regista coglie anche un altro aspetto, più sottile, della discriminazione: quando Charly, una ragazza cinese di Hong Kong che Mercy ha incontrato da poco, le dice che i suoi amici sono incuriositi da lei in quanto coreana e vorrebbero conoscerla, Mercy ribatte puntualizzando che lei è coreano-americana e che negli States quella si definirebbe una microaggressione. Concetto tra i più innovativi e interessanti nell’analisi delle relazioni interpersonali, le microaggressioni possono anche essere inconsce da parte di chi le mette in atto, ma non per questo meno lesive per chi le subisce. Disseminate un po’ dappertutto, ovviamente trovano un terreno fertile dove sono presenti gruppi etnici marginalizzati, non necessariamente in senso negativo. In compenso Charly, attivista del Movimento degli Ombrelli, evidenzia anche l’altra faccia della medaglia, facendo notare a Mercy che, dotata com’è di passaporto americano, oltre che di una laurea conseguita negli Stati Uniti, gode di una libertà di fondo che spesso non è capace di riconoscere e utilizzare, travisando le conseguenze delle sue stesse azioni e considerandole pura e semplice sfortuna.
Expats è una serie fatta di sentimenti e di atmosfere, create anche da una colonna sonora composita, scelta con cura per trasmettere differenti emozioni. Come Shangai, Singapore o Seoul, anche Hong Kong è una miscela di culture occidentali e orientali che, a seconda dei casi, affascina e irretisce, o spaventa e respinge. Lo skyline cittadino è un fitto bosco di grattacieli affacciato sull’acqua e delimitato dalle montagne, quasi a simboleggiare la complessità della coesistenza in una metropoli cosmopolita. Nell’ultimo episodio, il racconto del viaggio di Hilary per andare dal padre morente, che implica per lei un viaggio interiore a ritroso nel tempo, fino alle radici di un’infanzia segnata da abusi, è veicolato dal celebre ponte Hong Kong-Zhuhai-Macao, il più lungo del mondo, mentre in tutti gli episodi l’atmosfera coloniale è creata anche dai frequenti accenni ai cibi e alla cucina, che ovviamente risentono del melting pot: a cena possono esserci riso Chaufa o granchio o lasagne, polpettine indiane o un dolce sofisticato e scenografico come il Baked Alaska, si beve vino nei calici da degustazione o magari champagne ma non si disdegna un tè al crisantemo. Il mercato serale, che inizia al tramonto, tra aquiloni, gatti della fortuna, robot, pesci rossi, fiori, palloncini e street food, rispecchia la nostra condizione in un’epoca di globalizzazione e nel contempo di curiosità per tutto ciò che sembra esotico, diventando un’attrazione per i bambini e talvolta una seccatura per gli adulti, in tutti i casi la metafora di una frenesia di vita che non riesce a colmare il vuoto di esistenze irrisolte. Ed è qui, dove si trova di tutto, che si perde, ci si perde e si ritorna per cercare ancora.
All’inizio del primo episodio, una voce fuoricampo domanda che cosa succede alle persone che, involontariamente, hanno provocato una tragedia. Verranno mai perdonate? Riusciranno a dimenticare? Quello del perdono è un altro tema portante di Expats. In modi diversi, Margaret, Hilary e Mercy hanno bisogno di elaborare la perdita e la colpa. Tutti gli episodi sono disseminati di inquadrature fisse e piani sequenza prolungati, come per invitare chi guarda ad andare oltre il visibile, ma in particolare l’ultimo ricorre a lunghe conversazioni fra le tre protagoniste inquadrate singolarmente mentre parlano direttamente in macchina. L’impossibilità di vedere a quale delle altre due si rivolge la donna che sta parlando sottolinea da una parte il legame che le unisce in seguito alle esperienze condivise e dall’altra la necessità, per tutte e tre, di un distacco dal proprio vissuto per andare avanti. Se dimenticare il passato e le sofferenze patite non è né possibile né auspicabile, aprirsi all’accettazione di sé e al reciproco perdono è una fase ineludibile della crescita personale, a qualunque età. ‘Dobbiamo tenerci il dolore e continuare a vivere’ dice Mercy alla fine. E ascoltando le sue parole, che sono idealmente la risposta alle domande pronunciate all’inizio da quella voce fuoricampo, che è la sua, viene in mente una citazione dell’antica saggezza zen, che al primo impatto lascia interdetti, ma alla seconda lettura rivela una verità tanto profonda quanto geniale: Perdonare, e perdonarsi, significa rinunciare alla speranza di un passato migliore.
Voto: ★★★★
Lucia Corradini