A cura di Giancarlo Zappoli e Lucia Corradini
DO NOT EXPECT TOO MUCH FROM THE END OF THE WORLD di Radu Jude
L’immagine che rimane in mente, dopo la visione, è Angela nel suo improbabile abitino di paillettes che guida per le vie di Bucarest facendo scoppiare continuamente il palloncino di gomma da masticare e scambiando colorite imprecazioni con gli automobilisti che le passano accanto. Assistente di produzione, costretta a lavorare un numero spropositato di ore al giorno per non perdere la sua occupazione in un settore sempre più frenetico e dissennato, Angela è impegnata nel casting di persone che hanno subito infortuni invalidanti sul posto di lavoro, da inserire in un video aziendale sull’argomento, commissionato da una multinazionale austriaca.
Il versatile microcosmo rappresentato dalla sua macchina, la squallida periferia nella quale avvengono i suoi spostamenti, la carrellata di personaggi più o meno alla deriva che incontra svolgendo le interviste e le modalità non solo sfrenate ma anche inequivocabilmente eccessive secondo le quali interagisce con i social per dare sfogo alla sua frustrazione, sembrano il corrispettivo attuale e urbano del variegato mondo gitano, prevalentemente rurale e senza fissa dimora, raccontato da Emir Kusturica nei suoi film. Come il regista bosniaco, anche il rumeno Radu Jude annovera, tra i temi portanti del suo cinema, la denuncia sociale, e per svolgerlo ricorre a sua volta al sovrabbondante e al grottesco.
Narrata in un bianco e nero che non ha niente di suggestivo, la storia della giornata di Angela si intreccia con quella a colori di una sua omonima che fa la taxista negli anni Ottanta: il film nel film è Angela goes on (Lucian Bratu, 1981), metabolizzato da Jude tanto da farne il suo principale espediente narrativo e trarne il lungo piano sequenza conclusivo, deciso a tavolino durante una memorabile videoconversazione su Zoom che è un sarcastico capolavoro di logiche aziendali. Non sempre la fine di un mondo implica l’inizio di un mondo migliore, sembra volerci dire Radu Jude con il suo profluvio di immagini, citazioni, digressioni. E se lo spettatore rischia di rimanere sopraffatto da tanto materiale visivo e da tanti spunti di riflessione affastellati quasi con noncuranza, è innegabile l’efficacia con cui il regista riesce a dire la sua su un territorio geograficamente e storicamente complesso come quello balcanico e su un tempo, il nostro, così stravolto che gli orologi non hanno più lancette per calcolarlo, come nell’immagine, non certo nuova ma pur sempre potente e carica di rimandi, che compare su un muro di mattoni a metà film.
(l.c.)
EXCURSION di Una Gunjak
L’escursione del titolo è una gita scolastica molto attesa e destinata a sublimare impulsi e apprensioni, una sorta di Godot di cui si fa un gran parlare senza che si concretizzi mai. Ma è anche un viaggio esplorativo nella realtà e nella sensibilità in fieri di una quindicenne bosniaca e dei suoi compagni di scuola. Durante un gioco di gruppo, Iman s’inventa di essere stata a letto con Damir, un ragazzo più grande di lei, con il quale in realtà ha avuto soltanto un approccio superficiale. Se inizialmente si sente gratificata dalla curiosità e dall’invidia delle amiche, quando estremizza la sua finzione lasciando credere di essere rimasta incinta, si trova a dover affrontare la riprovazione di un mondo dalle vedute ristrette, che la giudica e la emargina. Da un giorno all’altro i suoi coetanei la evitano, la sua migliore amica si allontana da lei, l’insegnante di religione non la ammette a lezione, genitori e professori discutono del suo caso e la famosa gita ha un nuovo motivo per essere rinviata a mai più. Quando anche la madre di Iman viene coinvolta nell’affaire e convocata a scuola per dare spiegazioni del comportamento di sua figlia, è proprio a quest’ultima che rivolge la domanda più ovvia: Perché? Perché è quello che volevo, è la risposta diretta e sincera di Iman, ribadita allo stesso Damir, che a sua volta le chiede conto di quell’inaspettata amplificazione della realtà (e che lui per primo abbia sparso in giro pettegolezzi infondati non conta, lui può…).
Come afferma in un’intervista, la regista Una Gunjak che, al suo primo lungometraggio, fa ben sperare per il futuro, è particolarmente interessata a questo aspetto: la nascita del desiderio in una ragazza giovanissima, che ancora non sa bene dove e come indirizzarlo, e il modo in cui questo desiderio viene accolto dagli altri. La dogmatica e patriarcale società bosniaca è paradossalmente rafforzata dall’attualità modellata dai social network, con gli impossibili ideali di bellezza e perfezione estetica a cui le ragazze tentano in tutti i modi di adeguarsi. Al contrario, gli adolescenti maschi sembrano favoriti da una accomodante condiscendenza da parte degli adulti, che li protegge ma certo non li aiuta a chiarirsi le idee. La scelta di attori non professionisti per i ruoli dei giovani si è rivelata vincente, anche se la regista racconta che l’aspetto più difficile è stato proprio convincerli a essere soltanto se stessi sulla scena, recuperando quell’immediatezza e a volte anche quella goffaggine dell’età che gli onnipresenti selfie e i video virali su TikTok hanno ormai da tempo cancellato.
(l.c.)
BLAGA’S LESSONS di Stephan Komandarev
Blaga Naumova è un ex insegnante di lingua e letteratura bulgara che, rimasta vedova da pochi giorni vuole dare in breve tempo la degna sepoltura alle ceneri del marito. Per fare ciò occorre una somma importante che le viene sottratta grazie ad una truffa ben congegnata. Oltre alle ripetizioni che dà a una profuga siriana che vuole ottenere la cittadinanza, è costretta a cercarsi un lavoro. Ha però più di settant’anni e nessuno la vuole assumere. Finirà con il trovarsi alle dipendenze di coloro che l’hanno derubata.
Stephan Komandarev chiude con questo film premiato a Karlovy Vary una trilogia che ci offre uno sguardo disilluso sulla Bulgaria ormai da tempo postcomunista. Lo fa grazie ad un’interprete molto famosa in patria, Eli Skorcheva, che offre al personaggio di Blaga tutte le caratteristiche necessarie per leggerne il progressivo degrado a partire da una comune quotidianità. Ad un certo punto Blaga dice alla sua allieva siriana che anche in Bulgaria c’è una guerra. È sotterranea e non ha il suono delle bombe in arrivo ma è altrettanto letale se nn per i corpi per le coscienze. Blaga che vuole acquistare una doppia sepoltura per il marito defunto e per sé finisce con il trovarsi a fianco di chi l’ha derubata. È interessante notare come in alcune cinematografie provenienti dall’Est si finisca con il sottolineare come la mancanza di libertà imposta in passato dal socialismo reale sia stata sostituita da una società capitalistica in cui forse c’è una maggiore libertà di espressione ma in cui in fondo l’essere umano non è di fatto migliorato nel profondo. Il finale, che ovvaente non va rivelato, certifica che Blaga ha finalmente ottenuto una tomba: quella di qualsiasi valore morale.
(g.z.)
HESITATION WOUND di Selman Nacar
In un paese turco di provincia, la giovane Canan Banaz si divide tra l’assistenza alla madre in coma senza speranza di risveglio e il lavoro come avvocato penalista. Mentre la sua vicenda personale si avvicina inesorabilmente alla fine e si tratta di decidere se e quando staccare la spina per donare gli organi della morente, com’era suo desiderio, Canan si trova a dover affrontare un caso particolarmente delicato anche in ambito professionale. Convinta dell’innocenza del suo assistito, accusato di omicidio, vuole salvarlo dalla condanna, ma quando, il giorno dell’udienza, un testimone considerato decisivo non si presenta in tribunale, Canan perde la lucidità necessaria per fronteggiare due situazioni estreme e viene meno alla deontologia professionale.
È evidente l’intento del regista, Selman Nacar, al suo secondo lungometraggio, di intrecciare una vicenda personale-familiare e una giuridico-sociale per invitare lo spettatore alla riflessione etica su temi fondamentali come il fine vita, la responsabilità umana e civile, il diritto di accedere alla giustizia. Non a caso, il film evidenzia due grandi istituzioni che il singolo si trova prima o poi quasi immancabilmente ad affrontare, per piccole o grandi questioni, direttamente o indirettamente, nel corso della vita: quella medica e quella giuridica. La complessità di sensazioni, esitazioni, contraddizioni, aspettative e reazioni suscitate da questo confronto sembra rivestire un’importanza particolare per il regista, che concentra su di esse la propria attenzione e quella dello spettatore, tagliando corto invece sulla vita privata della protagonista che, a quanto pare, non influisce su tutto il resto, e lasciando spazio invece a dettagli simbolici, come l’improvvisa perdita di sangue dal naso di Canan quando rientra in aula sopraffatta da un’inaspettata rivelazione che le ha appena fatto il suo cliente.
Nacar introduce anche un aggancio alla realtà turca, quella di un paese sull’orlo del crollo, con l’improvviso cedimento di una tubatura che allaga parzialmente l’aula del tribunale proprio mentre Canan sta esponendo uno dei punti chiave della sua difesa. Forse è proprio questo aspetto troppo didascalico a minare in parte la potenziale efficacia di un film sostanzialmente ben costruito, lasciando scorgere una certa pedissequità dove invece ci si aspetterebbe maggiore scioltezza e originalità. Innegabile la bravura dell’attrice protagonista, Tülin Özen.
FOREVER HOLD YOUR PEACE di Ivan Marinović
È arrivato il giorno delle nozze per il montenegrino Momo il quale però non si apsetta che la promessa sosa Dragana lo raggiunga per dirgli c he ci ha ripensato. Peccato però che tutto sia già stato organizzato e che soprattutto Leso, l’anziano padre di Momo non voglia assolutamente fare una brutta figura con gli invitati. Invita così Dragana ad accettare un accordo segreto: il matrimonio si farà ma il giorno dopo ognuno tornerà alla propria casa.
Ivan Marinović sinora ha girato due film: uno sulla morte (The Black Pin) e uno sul matrimonio (questo). Ne manca uno sulla nascita per completare la terna dei momenti della vita fondamentali nella visione tradizionale balcanica del ciclo vitakle e sociale dell’umanità.
Paese piccolo la gente mormora si dice anche in Italia. Fogurarsi in un villaggio dei Balcani dove la festa di matrimonio è un rito collettivo che coinvolge tutti. La sceneggiatura mette in evidenza l’atteggiamento dle patriarca Leso che vediamo in apertura mentre cattura una mina galleggiante nel mare (residuato dell’orribile guerra tenutasi nell’ultima parte del secolo scorso) per farne candelotti di dinamite da far esplodere durante i festeggiamenti. È lui che organizz ala messa in scena pur di nion sfigurare mentre al povero Momo non resta che farsi trascinare dagli eventi cercando di dimenticare ubriacandosi. Non si può non pensare a Kusturica e ai suoi caos perfettamente orchestrati in cui la musica aveva un ruolo come in questo caso grazie alla colonna sonora originale di Toni Kitanovski, del rapper croato Vojo V e al duo montenegrino Who See.
Ne esce un quadro di una società che ved ele donne pronte alla ribellione ma ancora, anche se parzialmente, soffocate da tradizioni millenarie.
LOST COUNTRY di Valdimir Perišić
Serbia 1996. Stefan è uno studente liceale che vive con la madre divorziata Marklena. La donna è il portavoce ufficiale di Slobodan Milošević. In seguito ad elezioni truccate l’opposizione scende in piazza. Marklena cerca di separare la sua posizione politica, che la vede sostenere comunque il primo ministro, con la vita privata e il rapporto con il figlio Stefan.Il quale però non può sfuggire al giudizio che di sua madre hanno i compagni. Il ragazzo inizierà a vivere un doloroso conflitto interiore.
Valdimir Perišić, già regista di Ordinary People (2009) sugli orrori della guerra nella ex Jugoslavia e facente parte del progetto collettivo divenuto il film I ponti di Sarajevo torna ora sui temi che gli interessano con questo film in parte autobiografico. Infatti sua madre ha fatto parte dell’amministrazione governativa di colui che è stato successivamente accusato di crimini contro l’umanità. Perišić ha scritto la sceneggiatura con Alice Winocour, cosa che gli ha permesso di prendere le distanze dalla vicenda personale dando origine però a dei personaggi credibili.
Ciò che però viene messo sotto la lente di ingrandimento non è tanto il contesto politico quanto piuttosto (e giustamente) il progressivo estraniamento dal gruppo degli amici che Stefan subisce a causa delle scelte della madre. C’è una scena che fa percepire quasi sensorialmente questa condizione. Stefan fa parte di una squadra di pallanuoto e, durante una gara, nessuno gli passa la palla nonostante i suoi richiami.
Per quanto cerchi di negarne le responsabilità la figura di Marklena (contrazione di Marx e Lenin) lo perseguita all’esterno mentre iun casa cerca di evitare domande che per il figlio finiscono con il risultare cruciali.
(g.z.)
M. di Vardan Tozija
In un futuro non detereminato un padre ed un figlio in età infantile vivono isolati ed armati in un bosco o qualsiasi segno di possibii avvicinamenti di esseri umani. I quali si sono tutti trasformati in soggetti simili agli zombie in seguito a duna pandemia. Lo stesso genitore ohni tanto si ammanetta a un palo temendo di poter aggredire il bambino. Il quale trova un amico in un coetaneo Down con il quale ad un certo punto intraprenderà un viaggio che non sarà privo di pericoli.
Il regista macedone non realizza un film horror quanto piuttosto un percorso di crescita di un bambino costretto dagli eventi ad assistere a situazioni che implicano finali tragici conservando l’immagine di una madre assente dotata di poteri da fata. Tutto ciò potrebbe favorire un completo distacco dai film di genere made in USA anche se il regista sembra a tratti incerto sulla strada da prendere. Abbiamo così delle sequenze che si distaccano totalmente da quanto già conosciamo seguite poi das improvvise presenze che potremmo definire ‘tradizionali’ nei film similari.
(g.z.)
ANIMAL di Sofia Exarchou
La vita di un gruppo di animatori turistici in Grecia, presso uno dei tanti alberghi che offrono, all’interno del pacchetto vacanze, attività varie di svago e di presunto divertimento, prevede ritmi estenuanti. L’interesse della regista si concentra su Kalia, poliedrica ballerina e cantante che si distingue per anzianità di servizio e per energia, ma che quasi subito rivela l’ineluttabile infelicità che si nasconde dietro la frenetica apparenza tutta extensions e lustrini. Non basta a confortarla il fiume di alcolici nel quale cerca di annegare l’insoddisfazione, né la presenza costante del suo compagno che lavora con lei e neppure gli incontri occasionali durante il poco tempo libero. Probabilmente sarebbe superficiale e semplicistico considerare invidiabile, in astratto, la vita di un animatore turistico per il solo fatto che si svolge quasi per definizione in un luogo bello e in un’atmosfera di festa, eppure qualcosa stride nella rappresentazione monocorde di questa figura professionale, vista come una specie di animale ammaestrato dotato di un’anima che ha ben altre aspirazioni.
Inoltre, forse dal film non emerge a sufficienza il contrasto tra i turisti e i loro intrattenitori. I primi infatti si accontentano di una proposta decisamente modesta, che spazia dal bingo al karaoke passando per il ballo da discoteca e che non riesce a giustificare la profusione di energie e sacrifici da parte degli animatori. Kalia in particolare sembra prodigarsi per i clienti con una specie di paternalismo, lo stesso che adotta con se stessa, incapace com’è, o come sembra essere, di prendere realmente atto della propria vita per provare a cambiarla o per decidere di viverla con meno sofferenza. Era il 1969 quando Sidney Pollack realizzava un indimenticabile film su un tema analogo: Non si uccidono così anche i cavalli?. Il confronto è impossibile, dato che lo spettacolo di quella massacrante maratona di danza per un pubblico pagante si svolgeva negli Stati Uniti quasi un secolo fa, all’epoca della Grande Depressione, e data soprattutto la scelta precisa di un registro tragico per il racconto della vicenda. Ma certo è che almeno un bagliore di quell’intensità narrativa avrebbe regalato a Animal tutt’altra credibilità.
(l.c.)
ONLY WHEN I LAUGH di Vanja Juranic
‘Ti fa male?’ chiede un’amica a Tina, la protagonista, reduce da una sfuriata di Frane, suo marito, che per esprimere più efficacemente la propria collera nei suoi confronti l’ha presa a cinghiate. ‘Solo quando rido’ è la risposta di Tina. Apparentemente, nella sua vita non manca nulla: abita in una bella casa, non ha bisogno di lavorare, ha un marito che provvede a lei e a Mara, la loro bambina, ha un gruppo di amiche con le quali passa il tempo libero e una madre su cui sa di poter contare. Ma Tina vuole riprendere gli studi di psicologia, interrotti a causa del matrimonio e della gravidanza, per fare qualcosa che le interessa e le piace. Frane disapprova e anche la madre di Tina non condivide la sua decisione. Quando Tina le dice di voler divorziare, la invita a pazientare e a non lasciare la famiglia. Del resto è proprio Mara la preoccupazione principale di Tina, che si sveglia nel cuore della notte da incubi ricorrenti e si precipita nella stanza della figlia per verificare che non le sia successo niente.
La violenza irrompe a tratti, improvvisamente, in una quotidianità che in superficie sembra accettabile, anche se non certo appagante, e da parte di un uomo che pare innocuo fintantoché le cose vanno esattamente come vuole lui. Se trovasse sempre la cena pronta e la casa in ordine, se sua moglie non pretendesse di coltivare altri interessi oltre ad accudire la bambina e a servire lui, forse non arriverebbe a massacrarla di botte costringendola a ricorrere a una soluzione estrema, che finirà per segnare irrimediabilmente la sua vita.
Vanja Juranic, la regista, tratteggia l’anacronistico modello patriarcale della società croata con una essenzialità pervasa di tensione che dà al film l’andamento di un thriller. Il tema è però attuale in ogni parte del mondo, e la vicenda narrata da Juranic non solo evidenzia la sproporzione tra la brutalità fuori controllo di un uomo e i comportamenti che l’hanno provocata, ma solleva e ribadisce interrogativi universali che ancora non hanno trovato risposte univoche: quando si può parlare di legittima difesa nel caso di violenza domestica? E quando si configura il reato di maltrattamento? Le leggi cambiano da un paese all’altro e sono in continuo divenire, e le strategie di prevenzione coinvolgono la società nel suo complesso. Sono questi aspetti a fare di Only when I laugh non solo un film apprezzabile ma anche un’opera di denuncia sociale che oltrepassa i confini della sua cultura d’origine.
(l.c.)