SPECIALE VENEZIA 80
(a cura di Francesca Savino, Maria Antonietta Vitiello, Ginevra Gennari)
Questo special prende in esame tutte le opere presentate in Concorso a cui si aggiungono segnalazioni di film presentati in altre sezioni.
CONCORSO
Bastarden (The promised land) di Nikolaj Arcel
Tratto dal romanzo The Captain and Ann Barbara di Ida Jessen, inedito in Italia, e scritto dallo stesso Arcel insieme ad Anders Thomas Jensen (autore di quel piccolo capolavoro di regia e scrittura che è Le mele di Adamo del 2005), Bastarden racconta la parabola del capitano danese Ludvig Kahlen, che nel 1755 decide di partire in solitaria per lo Jutland per assecondare il desiderio di re Federico V di fondare una colonia nella brughiera (notoriamente, una terra brulla e inospitale). L’uomo, di umili origini, spera di guadagnarsi da vivere e di entrare nelle grazie del sovrano per riscattare il suo onore e ottenere un titolo nobiliare. Purtroppo non sa che il giudice e latifondista Frederik de Schinkel, il nobiluomo più potente della contea che fa da sfondo alle vicende, è intenzionato a mettergli i bastoni fra le ruote con ogni mezzo possibile.
Sei anni dopo il deludente La torre nera, Nikolaj Arcel ritorna in patria per misurarsi con un period drama (con sorprendenti venature di western atipico) che assume via via i contorni dell’epopea, sia per l’ambientazione esaltata da campi lunghi che rimarcano l’ostilità di un territorio dove oltre a “erica, sassi e sabbia” e le sortite dei briganti non c’è nient’altro, sia soprattutto per l’ostinata tenacia del suo protagonista, il capitano Kahlen, un immenso Mads Mikkelsen, che con Arcel aveva già lavorato nell’interessante A Royal Affair.
La battaglia impari che Kahlen ingaggerà con de Schinkel (Simon Bennebjerg, bravissimo nel raccontare un’amoralità capricciosa e talvolta involontariamente ridicola) non si fermerà davanti a nulla: Arcel, regista efficace soprattutto nel riempire l’immagine del dolore dei suoi personaggi, fa diventare la brughiera una sorta di “Far North” dove tutto può e deve accadere, dove il protagonista e l’antagonista sono corrosi dallo stesso demone e dove giusto e sbagliato, ingiustizia e riscatto, merito e colpa perdono la loro limpida distinzione, devastati da un’ambizione cieca, ottusa. Ludvig vuole incassare ciò che la vita gli ha negato pur essendoselo conquistato, Frederik ciò che pensa suo per diritto divino e di casato: in fondo, entrambi pretendono ciò che considerano giusto avere.
Arcel ha definito Bastarden la sua opera più personale e matura, concepita dopo essere diventato padre: “Ho rivisto i miei film precedenti e ho capito che riflettevano la visione di un uomo con un unico scopo, la dedizione entusiasta della creazione di storie e di arte, ma non molto altro. Stavolta invece volevo confrontarmi con una storia epica e grandiosa su come le nostre ambizioni e i nostri desideri siano destinati a fallire se rappresentano la sola cosa che abbiamo. La vita è un caos: dolorosa e sgradevole, bella e straordinaria, e spesso non la possiamo controllare. Come dice il proverbio: Noi facciamo piani e Dio se la ride”. (fs)
Dogman di Luc Besson
Il preadolescente Douglas vive con il padre e il fratello maggiore che allevano cani da combattimento in modo violento e brutale. All’interno del suo contesto famigliare non c’è spazio per sentimenti e cura e Douglas, di nascosto dal padre, si occupa amorevolmente dei cani, gli unici che ricambiano il suo affetto. Il padre li affama per renderli più violenti, e quando scopre il ragazzo dare da mangiare agli animali, lo rinchiude in gabbia con loro. Una volta adulto, con le conseguenze dei maltrattamenti subiti dal padre e dal fratello, farà di questo legame speciale con i cani una professione e poi uno stile molto personale di vita, al di sopra di convenzioni sociali e legalità con un proprio codice morale fino a quando viene arrestato in abiti femminili. In carcere, Douglas deciderà di aprirsi con una psicologa forense a cui narrerà la sua incredibile vita.
Luc Besson anche qui, come aveva già fatto con Leon, Nikita e Anna, torna a narrare di esistenze al limite, violente ma allo stesso tempo capaci di grande amore e umanità. In linea quindi con la sua filmografia, Besson crea un personaggio poliedrico, teatrale che, come nei film con i supereroi, ha dei limiti fisici ma un potere: l’intesa immediata con questo esercito di cani, magistralmente addestrato che sembra rispondere come in una danza ad ogni passo e comando del protagonista. Un’opera intensa, fumettistica e poetica che, come lo stesso registra ha dichiarato, è stata possibile grazie alla generosa capacità attoriale di Caleb Landry Jones. (mav)
La bête di Bertrand Bonello
Gabrielle, una giovane donna, in un presente distopico (2014) sta recitando su uno sfondo verde e senza grandi altri riferimenti, una scena in cui ad un certo punto dovrebbe vedere una bestia. Gabrielle in un altro tempo, nel 2044, sente che vorrebbe stare meglio a livello emotivo e le viene proposto di potersi liberare dai lasciti delle vite precedenti attraverso una procedura in cui tali vite sono in qualche modo rivissute e “ripulite”. Questa procedura, in un’era dominata dalle macchine e dall’intelligenza artificiale, permette di essere più sereni, di avere incarichi lavorativi migliori e più stabili, a scapito però della propria emotività che viene in qualche modo azzerata. Il tema emotivo di Gabrielle nelle diverse epoche e vite è legato a Luis, figura verso cui nutre una grande attrazione che rimane inespressa. I loro destini continuano ad incrociarsi in tre momenti: nel passato in cui sono due amanti nella Parigi della Belle Epoque, nel 2014 a Los Angeles in cui Luis è un maniaco ossessionato dalle donne e nella Parigi del futuro in cui entrambi si sottopongono alla procedura, ma forse gli esiti non saranno proprio quelli attesi.
Il film tratto dalla novella di Henry James “La bestia nella giungla” ha il primo grande merito di lasciare un finale sospeso in cui ciascuno, in questo futuro disumanizzato, può proiettare una propria terribile incombenza, un’incognita prettamente emotiva, umana e ancestrale. Bonello incastra piani nelle diverse dimensioni temporali, in cui il montaggio riesce a svelare ma non a chiarire. Forse si più sottolineare qualche superficialità nel dipingere questo futuro in cui una puntura all’orecchio può indurre la procedura di purificazione del DNA delle vite precedenti o nei dialoghi con le pseudo macchine-psicologhe. Viene da pensare, tuttavia, che questi elementi siano volutamente così delineati e non pensati con effetti scenici o scenografici particolari per tenere lo spettatore in una prospettiva concettuale e filosofica. Il regista interroga e pone questioni sull’attuale natura delle relazioni e su come queste potrebbero evolvere nel futuro con una totale immersione in questi mondi che prosegue anche dopo il film, grande chicca, grazie al QR code nei titoli di coda. (mav)
Hors-saison di Stéphane Brizé
Alice e Mathieu, fidanzati di vecchia data, si rincontrano in una cittadina della Francia occidentale dove Alice abita da sempre, e dove negli ultimi anni ha deciso di costruirsi una famiglia. Mathieu è un attore cinematografico bloccatosi davanti alla proposta di entrare nel mondo teatrale, perché incapace di sentirsi all’altezza; decidendo di recarsi nella cittadina dove sa che abita Alice, sceglie di ricontattarla, in cerca forse di qualche conforto e di sé stesso. I due, non appena si rincontrano, scoprono di vedersi ancora con gli stessi occhi e, durante le giornate passate insieme, cercano di ritrovare la propria essenza uno attraverso l’altra, e viceversa, ma con la consapevolezza che ormai appartengono entrambi a due vite diverse e inconciliabili.
Al contrario dell’intramontabile La La Land, non solo Mathieu e Alice si sono separati irrimediabilmente, ma questa separazione gli ha impedito di realizzarsi nelle loro potenzialità e desideri più viscerali. Attraverso questo ritrovamento, che è una parentesi vitalizzante e quasi ‘magica’, i due arrivano alla consapevolezza di essere in realtà rimasti fermi per tutti gli anni che non hanno passato insieme, celando il loro io radicato e vero dietro un’esistenza in apparenza completa, ma in realtà vacua e causa di una profonda solitudine. Una solitudine che non sono riusciti a spiegarsi fino in fondo fino al giorno nel quale si sono rivisti; dapprima si raccontano l’uno all’altra come due persone felici, contente degli obiettivi raggiunti, velati solo da una leggera e inspiegabile nube di tristezza. Ma col passare dei giorni Mathieu e Alice mostrano i loro sentimenti intrinsechi, il blocco soffocante che li accompagna da quando si sono lasciati. Questa tematica viene proposta dal film con leggiadria e delicatezza, tramite le immagini di un amore perpetuato nella radice dell’anima, un amore così radicato, da impedire ai due amanti di avverare il proprio sé senza l’altro. Il film gioca molto sui dialoghi e su rappresentazioni essenziali dell’”incontro”, che si svolge spesso attorno a un tavolo, e raramente usa luoghi più particolari (infatti l’ambientazione si sposta dall’hotel, al ristorante, al mare). Una scelta che potrebbe rivelarsi poco estetica, ma che è in realtà di grande effetto perché permette di focalizzarsi unicamente sul legame dei due amanti, sulle loro risate, sul cambiamento dell’espressione degli occhi nel momento in cui si guardano o ridono. Occhi che parlano e scoprono cosa si sono persi, inneggiando a un amore di cui poco spesso si parla, perché non è dipendenza, non è tossicità di una relazione complessa, è completezza mancata. Stéphane Brizé dirige un film che traspare in tutta la sua semplice verità e che difficilmente non arriva allo spettatore, anche grazie ad Alba Rohrwacher e Guillaime Canet, interpreti dei due protagonisti, che riescono a mostrare l’arrendevolezza passionevole di fronte alla perdita che ha cambiato per sempre le vite dei due innamorati.
Enea di Pietro Castellitto
Pietro Castellitto arriva in concorso al Lido con Enea, che scrive, dirige e interpreta, ed è prodotto da Vision Distribution. Il film fin dall’inizio è sul punto di sorprendere, senza però esplodere mai. Tra i borghi romani Enea, un ragazzo di appena trent’anni, e il suo partner e migliore amico, Valentino, decidono di ampliare i loro affari (apparentemente solo un ristorante di sushi dietro il quale si nasconde un importante giro di droga) occupandosi della distribuzione di un grosso carico di cocaina. Nel mentre, i due vivono le normali situazioni di due ragazzi della loro età: l’amore, le complessità della famiglia, le amicizie.
Sebbene la storia cerchi di distinguersi da un’usuale copia dei film sui gangster americani, è facile identificarla come tale; d’altronde gli elementi ci sono tutti, la famiglia sempre al primo posto, le sparatorie, morti inaspettate, i traffici di droga clandestini, le donne e poi la donna trattata come regina. Fortunatamente Enea riesce a regalare al pubblico una dolcezza nelle scene e nei dialoghi che non è scontata: le riprese si soffermano a lungo sugli occhi parlanti dei personaggi, lasciando allo spettatore il compito di cogliere cosa essi hanno dentro, senza esplicitarlo; inoltre gli spargimenti di sangue vengono perlopiù evitati, le sparatorie non si prolungano ma anzi sono improvvise e rapide, e trasportano così il pubblico all’interno del racconto senza paura o angoscia ma con suspense e curiosità, e anche con una certa leggerezza. Non mancano battute divertenti e non banali che alleggerisco la durata di quasi due ore del film. L’interpretazione di Pietro è quasi impeccabile ed estremamente credibile Regge il film quasi interamente da solo, riuscendo a farci cogliere se stesso solo attraverso lo sguardo. Purtroppo il film rimane lineare trattando un argomento non incisivo né tantomeno innovativo, e non riesce a diventare nulla di più se non un’opera piacevole e con diverse potenzialità, ma fine a sé stessa (gg).
Maestro di Bradley Cooper
Scritto, diretto e interpretato dall’americano Bradley Cooper, Maestro ricostruisce la biografia del grande direttore d’orchestra e compositore Leonard Bernstein (1918-1990) partendo da una prospettiva alquanto privata: la bisessualità del maestro in questione. Cooper gira per metà in bianco e nero e per metà a colori e incarna, con piccola protesi al naso, ciuffo ribelle e sigaretta sempre in bocca, il fenomenale musicista che compose West Side Story e decine di altri capolavori.
Il film comincia nel modo più tradizionale possibile: Bernstein, all’apice del successo, rilascia un’intervista e così riavvolge il nastro, visivo e sonoro, della sua esistenza. La prima parte è tutta dedicata a questo flashback: siamo nel 1943, e per la prima volta il compositore americano si trova a dirigere la New York Philharmonic Orchestra alla Carnegie Hall. Quando riceve la telefonata che lo avvisa di questo cambiamento dell’ultimo minuto – Bruno Walter è malato – è a letto con un uomo, un musicista come lui, a cui sembra legato da sincero affetto. Ad una festa, però, incontra Felicia Montealegre e tra i due scatta immediatamente una profonda complicità: lei aspirante attrice, lui promessa della musica contemporanea, i due condividono energia, gioia di vivere, entusiasmo e un’intima tendenza ad eccedere rispetto a canoni, etichette, convenzioni.
Sulla scia di A Star Is Born, Bradley Cooper continua a indagare il rapporto tra arte e vita attraverso la relazione tra due artisti ancora una volta messi alla prova dalla difficoltà di coniugare reale e ideale, creatività e ragione. Nel farlo si affida alla bravura degli attori: alla sua e a quella di una ottima Carey Mulligan, capace di dare vita, con la presenza dello sguardo e l’intensità del volto, a primi piani che assurgono a veri e propri ritratti esistenziali. Le due star indubbiamente restituiscono bene l’eccentrico ménage familiare di casa Bernstein; la ricostruzione d’ambiente (abiti, arredi, pettinature, auto, gesti sul palco eccetera) è accurata e affascinante; naturalmente la colonna sonora, costellata di musiche composte da Bernstein nel corso di una vita, è un piacere per l’udito. Tuttavia, il film arranca, si disperde, fiacco e un po’ troppo celebrativo: crea scene memorabili e potenti, ma fatica a esplorare davvero i suoi protagonisti, dimostrando un approccio efficace ma un po’ affettato nel preparare e sviluppare i momenti di tensione. Concentra la sua attenzione sul continuo mediare dei due protagonisti nell’intento di salvare la loro relazione amorosa, senza mai allontanarsi completamente, ma ignora l’interrogativo più ovvio e interessante – ovvero perché il direttore d’orchestra abbia deciso di nascondere la sua sessualità – né spiega il percorso che lo ha portato anni dopo, raggiunta la notorietà, a rivelarsi pubblicamente. (fs)
Priscilla di Sofia Coppola
Priscilla Beaulieu ha 14 anni, timida e minuta si è da poco trasferita con la famiglia nella base militare americana di Wiesbaden in Germania e ad una festa incontra Elvis che sta facendo lì il periodo di naia. Lui è già l’idolo del rock, suo e delle sue coetanee, ma sembra trovare in lei una confidente e un supporto mostrandole un lato più fragile e bisognoso. Le chiede di sposarlo con la clausola della tutela legale affidata al padre Vernon. Graceland sembra il paese delle meraviglie e lui il principe azzurro ma le cose non sono così semplici per Priscilla, confinata in una gabbia dorata in costante attesa dell’uomo dietro al mito. Nel mentre i giornali continuano a metterne in piazza le scappatelle più o meno significative. La storia è nota: la nascita di Lisa Marie e il suo prendere consapevolezza di sé fino al divorzio da Elvis, quattro anni prima della morte di quest’ultimo.
Il film nasce dal romanzo autobiografico di Priscilla Priesley, “Elvis and Me” con un inizio ricco di dettagli che richiama in modo immediato Marie Antoinette con l’inquadratura dei piedi di Priscilla che affondano nel tappeto rosa e le ciglia finte custodite in una scintillante scatolina. Il film, rispetto a quello di Baz Luhrmann, con cui il confronto è inevitabile, è volutamente una sorta di altro lato intimista, una Graceland colma di regole e rigore che silente attende il mito. Il ritratto di Elvis secondo la sua amata Priscilla è quello di un uomo fragilissimo, possessivo, incapace di vederla se non come una sua proprietà, una compagnia più che una compagna. Nonostante la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, Cailee Spaeny fatica ad uscire dal ruolo che è più consono per la protagonista alla prima parte del film: ovvero di un’adolescente che si ritrova famosa di riflesso ma rimane in attesa di poter vivere appieno la sua relazione. Si coglie bene il passaggio ad una versione glamour con la fama e poi la fatica e la frustrazione ma, non in modo così deciso, la sua trasformazione, che è solo accennata e che, in modo superficiale, sfocia nella richiesta di divorzio. (mav)
Finalmente l’alba di Saverio Costanzo
Roma, anni Cinquanta. La diciottenne Mimosa, di umili origini e promessa sposa di un anonimo e sudaticcio poliziotto, accompagna con la mamma l’avvenente sorella a un provino nei celebri studi di produzione di Cinecittà, all’apice della fortuna internazionale per un kolossal prodotto dagli americani e ambientato nell’antico Egitto. Mimosa viene notata dalla grande star Josephine Esperanto, che interpreta una regina egizia simbolo di emancipazione femminile e che, inaspettatamente, la vuole a tutti i costi sul set. La diva prende a cuore l’innocenza della ragazza e la sua estraneità a quel mondo di finzione, e finisce per trascinarla con sé in una notte brava attraverso i luoghi della “dolce vita” romana, fra attori hollywoodiani e faccendieri che ronzano attorno al microcosmo del cinema. Mimosa viene catapultata suo malgrado, ma non senza momenti di euforia, in un universo privo di regole (e di scrupoli) animato da narcisismi e rivalità, ma anche da una fame di vita che vede nella nuova arrivata una fonte di linfa vitale. Arriverà l’alba a concludere questa rocambolesca avventura notturna?
La prima parte di Finalmente l’alba cattura lo spettatore. Quando Mimosa arriva a Cinecittà e assiste alle riprese del kolossal sull’Egitto, anche lo spettatore viene travolto dall’imponenza del set e si sente parte integrante della storia. Purtroppo, queste prime sensazioni vanno via via a scemare, travolte e un po’ sopraffatte da una valanga di citazioni che finiscono per diventare troppo ingombrati. Da Midnight in Paris di Allen a Babylon di Chazelle, da Fuori orario di Scorsese agli innumerevoli rimandi al cinema italiano di Fellini e Visconti, e infine alla struggente poesia di Cesare Pavese Passerò per piazza di Spagna, sulla quale è incardinato il gran finale, Costanzo impiega 140 lunghissimi minuti per tessere un cine-affresco assai ambizioso-forse troppo-che rievoca, denuncia, divaga, con un retrogusto da romanzo di formazione che non è privo di attrattiva; ma il pathos e l’immedesimazione stentano e la conclusione della storia sembra non arrivare mai.
In fin dei conti, Finalmente l’alba ha la struttura di un coming of age condensato in una sola notte. All’inizio Mimosa è una ragazza timida e ingenua che non conosce il mondo fuori dalla sua stanza, allo stesso modo della leonessa in gabbia a Cinecittà. Col passare della notte la protagonista acquisisce sempre più sicurezza, trova la luce e la voce, e il suo spaesamento di sedotta lascia spazio a un’anima da seduttrice. Ma il parallelismo con la leonessa, ridondante e fin troppo ostentato, si sgretola dietro un’esteriorità apparente il cui messaggio sembra invece perdersi per la strada, proprio come la sua protagonista. (fs)
Comandante di Edoardo De Angelis
Comandante il nuovo film di produzione italiana diretto da Edoardo de Angelis e scelto come film d’apertura a Venezia 80’, vede come protagonista un Pierfrancesco Favino che forse nell’accento veneto del suo personaggio non è totalmente a suo agio, ma che riesce comunque a fare uscire l’anima del comandante. Il film, ambientato nel 1940, muove le sue riprese su una flotta di giovani uomini coraggiosi, pronti a rischiare la vita in una missione quasi impossibile, che gli farà attraversare lo stretto di Gibilterra per poter poi realizzare un agguato via mare agli inglesi.
Sebbene il lungometraggio si prospetti come un lungo e sanguinoso racconto di guerra come tanti se n’è già visti, verso metà prende tutt’altro tenore e diventa uno sconvolgente grido alla pietà umana. Questo cambio repentino nello stile del racconto potrebbe lasciare lo spettatore disorientato, non essendo inizialmente chiaro dove il film si stia dirigendo, ma potrebbe anche stuzzicargli un interesse, una sorta di curiosità inspiegabile (data dal senso non evidente del racconto), che piano piano viene svelata. Con un ritmo calmo ma non privo di suspense, il regista ci porta in una storia che non ha quasi niente della ferocia della guerra ma che anzi ci lascia la tenerezza della compassione umana, la stessa cantata da de Andrè ne ‘La Guerra di Piero’. La storia, portavoce di una fratellanza senza confini spesso dimenticata, è accompagnata da una fotografia eccezionale che lascia nello spettatore immagini folgoranti, come quella in stile Wes Anderson del ricordo della moglie al pianoforte. Edoardo de Angelis ci ricorda che anche nelle situazioni più bestiali può esistere la pietà, e ci fa il regalo di vedere un’Italia unita attraverso tutte le sfumature dialettali che raccontano ciascun personaggio della flotta mostrandocelo in tutta la sua verità e semplicità. Purtroppo, per dare uno spazio vero a ciascun personaggio, la cui realtà e singolarità viene solo accennata, il film avrebbe dovuto essere molto più lungo; in questo tentativo di dare comunque una certa rilevanza a ciascuno di loro, i personaggi risultano come spezzati a metà, uno schizzo incompleto che non arriva mai ad essere disegno. Nonostante ciò, è un film che merita la visione per tutta l’umanità e la speranza che fa trasparire e di cui abbiamo ogni giorno più bisogno. (gg)
Lubo di Giorgio Diritti
Lubo con la moglie e i tre bambini del popolo Jenisch si guadagna da vivere come artista di strada con spettacoli in cui coinvolge tutta la famiglia fino a quando viene reclutato nell’esercito svizzero per proteggere i confini di Stato dall’invasione tedesca nel 1939. Una sera il nipote gli comunica che i figli sono stati portati via dallo stesso esercito per cui sta prestando servizio e la moglie, nel disperato tentativo di proteggere e tenere con sé i bambini, è stata uccisa. Il rapimento è opera del programma legislativo Kinder der Landstrasse che si proponeva di “rieducare” il popolo Jenisch togliendo i bambini alle loro famiglie per metterli in collegio o darli in adozione. Lubo, per sfuggire all’esercito, finge di accordarsi con un uomo d’affari, lo uccide e ne prende identità, macchina e averi. Riesce così ad inserirsi nell’alta società a Lugano per compiere il suo piano: fecondare le donne compensando le perdite del popolo Jenisch subite con gli allontanamenti e cercare negli archivi dove sono i suoi bambini. Un nuovo amore, dopo tante sofferenze, sembra finalmente riaccendere in lui la speranza di una vita affettiva e una famiglia, ma la sua vera identità viene svelata e le cose nuovamente si complicano.
Giorgio Diritti usa il romanzo di Cavatore, “Il seminatore” per portare alla luce una vicenda poco nota come quella del programma Kinder der Landstrasse in un territorio come la Svizzera in genere considerato, “di grande cultura” e attento alle libertà individuali. Come nel Diritti dell’Uomo che verrà sulla vicenda di Marzabotto, questa è una riflessione su una triste pagina della storia grazie al personaggio di Lubo che lotta fino alla fine per il diritto alla sua identità e al suo essere padre. Il film ha una precisa valenza morale e un’attenta ricostruzione storica. In alcuni momenti, come se si ponesse troppi obiettivi nel cercare sfumature ed essere non scontato, eccede nell’ambizione e tende ad essere dispersivo. Lo stesso Rogowsky, perfetto nella sua teatralità ed espressività corporea convince poco in un film così ricco di dialoghi e di lingue diverse. (mav)
Origin di Ava Du Vernay
Tratto dal libro ‘Caste: The Origins of Our Discontents’ di Isabel Wilkerson il film si pone l’obiettivo di far capire quali siano state le radici profonde da cui è nato il libro. Isabel è una giornalista nera americana, sposata con Brett, un ingegnere bianco. La coppia ha sempre vissuto immersa tra i giudizi della gente, ma la loro sana e profonda relazione si spezza una sera, quando Brett muore prematuramente. Isabel aveva da poco smesso di scrivere per i giornali, avendo deciso di dedicarsi totalmente ai libri. Ma quell’ultima sera Brett la rimprovera, spingendola a non lasciare i fatti di cronaca, di cui era così brava a scrivere opinioni. Dopo la morte di Brett, e successivamente, nel giro di pochi mesi, della madre, Isabel è distrutta dal dolore, ma dopo un lungo tempo di stallo, decide di reagire, scrivendo un saggio sociale che prova come tutti gli stermini più grandi avvenuti nel mondo (in particolare: lo schiavismo americano, lo sterminio ebreo, e i dalit indiani) siano legati da una causa comune, e cioè il sistema delle caste (secondo cui esistono caste dominanti e caste subalterne, che tali devono rimanere, anche con la forza). Il film ripercorre tutta la sua ricerca, in cui Isabel si impegna nel parlare con la gente più disparata in giro per il mondo.
Nonostante l’argomento estremamente interessante e avvincente, purtroppo il lungometraggio fatica a evidenziare la battaglia oltreconfine che compie la donna, soffermandosi oltre il necessario sulle sue vicissitudini familiari, e rendendo la pellicola lenta e spesso noiosa. Fortunatamente riesce comunque, in alcune immagini particolari, a portare allo spettatore tutta l’emozione trasportante di alcuni vissuti forti: è il caso di una delle ultime scene, dove una squadra di bambini di appena 8 anni, vittoriosa dopo una partita di football, decide di buttarsi in piscina; questo però viene impedito al bambino di colore che ne faceva parte, che, sotto gli occhi increduli di tutti, viene escluso e allontanato dall’acqua, perché se la toccasse la “sporcherebbe”. Una scena che mostra realmente l’anima del film, e che in soli pochi minuti riesce a far venire la pelle d’oca senza il bisogno di mostrare stragi, ma scegliendo di concentrarsi sul sentimento di umiliazione e vergogna, riuscendo ad essere in questo modo ancora più impattante. L’attrice risulta, per l’intera pellicola, molto credibile nel suo dolore, ma forse l’interpretazione diventa debole quando deve mostrare il suo coraggio e la sua determinazione. Inoltre, il finale, estremamente lungo ed estenuante, con riprese lente sugli interni di una casa, crea una sospensione fuorviante rispetto alla forza che l’intero film dovrebbe trasmettere. (gg)
The Killer di David Fincher
Tratto dal romanzo a fumetti di Matz e Luc Jacamon, descrive in capitoli l’ultimo atto della storia professionale di The Killer, meticoloso ed ossessivo in tutti i suoi incarichi, che nell’ultimo lavoro commette un errore fatale. Qualche giorno dopo qualcuno ha saccheggiato casa sua e la sua fidanzata giace in un letto di ospedale. Da quel momento, senza tregua, sarà cacciatore e preda, risalendo la scala gerarchica fino all’unico vero mandante per “sistemare” le cose.
Il film, anche nella sua realizzazione, poggia le basi su una crime-story fumettistica in cui il personaggio principale che, non a caso non ha un nome, esaspera i tratti del sicario che non deve cedere all’empatia e “attenersi ad un piano” ma contemporaneamente essere un compagno amorevole.
Fassbender, come in Shame, ha un repertorio espressivo che ben si presta nella parte del tipo risoluto, glaciale ed ossessivo. Il film, forse consapevole di non avere grandi spunti di originalità, punta ad alcune chicche durante percorso piuttosto che al colpo di scena come destinazione finale. Sono, infatti, molto piacevoli alcune trovate come la cena stellata con la sua collega/antagonista interpretata da Tilda Swinton e alcuni intoppi grotteschi. (mav)
Memory di Michel Franco
Dopo l’inquietante Nuevo Orden del 2020 e il nichilista Sundown del 2021, il regista messicano Michel Franco torna in Concorso a Venezia, edizione 80, con una storia tutta americana, Memory: titolo che anticipa il fatto che il tema del ricordo, ora doloroso ora svanito, è il cuore del film.
Nella prima scena conosciamo Sylvia a una riunione degli alcolisti anonimi dedicata al suo tredicesimo “anniversario” senza alcol. La donna è lì con sua figlia, l’adolescente Anna con cui vive da sola a Brooklyn (non si farà mai neppure menzione al padre della ragazza); assistente sociale in un centro per adulti non autosufficienti, Sylvia non solo è stata dipendente dall’alcol, ma ha subito varie forme di violenza sessuale. Questo passato così pesante l’ha resa una donna sempre sulla difensiva, restia a dare confidenza alle persone che non conosce e molto protettiva con Anna. Una sera però un uomo, Saul, segue Sylvia fino a Brooklyn dopo averla (ri)vista alla festa/rimpatriata del liceo che entrambi hanno frequentato: la donna fugge a casa e lui finisce per passare tutta la notte sotto la sua finestra, evidentemente in stato confusionale. La mattina dopo Sylvia decide di affrontarlo e scopre che Saul è affetto da prematura demenza. Non sveliamo di più, perché Memory, sul filo di un realismo livido, quasi senza colonna sonora se non la ricorrente Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, descrive l’inatteso legame che finirà per crearsi, contro tutto e tutti, tra i due: l’una tormentata da ricordi e per questo ossessionata dalla sicurezza, l’altro vittima di ricordi intermittenti e quindi esposto alla perdita di sé.
“Volevo girare un film sulle persone che si perdono nelle maglie della società. La loro incapacità, o riluttanza, a conformarsi alle aspettative è spesso radicata in fatti che esistono soltanto nei loro ricordi. A volte però è la marginalizzazione stessa a offrire una via di fuga dalle ombre del passato, una possibilità di costruire una vita nel presente”. Così Franco definisce efficacemente la sua ultima fatica, molto americana nella confezione, e che può ricordare alcuni film hollywoodiani commerciali ormai d’antan, come Paura di amare di Garry Marshall e, forse ancor di più, Lettere d’amore di Martin Ritt, con Jane Fonda e Robert De Niro, anche se qui non è l’analfabetismo come stigma sociale a innescare l’incontro, tenero e un po’ sospettoso, delle due solitudini.
Franco inserisce in Memory spunti di riflessione di un certo profilo (a partire dal ruolo della “memoria” cui si riferisce il titolo, ma anche il significato esaustivo della “verità”) e temi pesanti come la pedofilia e la violenza sessuale: tutto è, insomma, meno lieve di una love story hollywoodiana d’ordinanza ma, in fondo, è proprio il lato romantico del film a costituirne la parte più riuscita e coinvolgente. (fs)
Io capitano di Matteo Garrone
Seydou e Moussa sono due cugini adolescenti di un villaggio vicino a Dakar che sognano di andare in Europa per avere successo come cantanti; per realizzare il loro progetto, lavorano di nascosto dalle famiglie fino a quando riescono a raggiungere la cifra per intraprendere il viaggio come clandestini. Disposti a tutto, interpellano persino lo stregone del villaggio che dà loro la benedizione degli antenati, però da subito il viaggio si presenta denso di pericoli: i soldi a loro disposizione finiscono rapidamente perché ciascuno in modo spietato se ne approfitta truffandoli in vario modo. Il viaggio a piedi nel deserto sarà solo la prima prova seguita dalle peggiori torture nelle prigioni della Libia fino a quella più forte del viaggio in mare da Tripoli a Lampedusa che vedrà Seydou nel ruolo di capitano.
Il film ha vinto il Leone d’argento per la migliore regia e il premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente a Saydou Sarr e il premio Green Drop Award per la migliore sostenibilità ambientale insieme a Green Border per lo sviluppo di un tema comune che è quello dell’impossibilità per alcune popolazioni in una condizione sofferta di migrare liberamente senza un adeguato pensiero dei governi sulla gestione del fenomeno.
Io capitano è un road movie e un coming of age che ha il grande merito di coinvolgere emotivamente su una questione comunque nota che è quella di questi viaggi di migrazione dall’Africa verso l’Europa carichi di morte a cui Garrone invita a non abituarsi prendendo le parti di un adolescente che ha sogni tipici della sua età. La regia di questo film sembra prendere le distanze da un Garrone più cinico e crudo, dove anche le visioni favolistiche del racconto dei racconti erano più vicine ad una visione perversa dell’animo. In questo invece vi sono scene crude per il tema che descrive ma allo stesso tempo c’è anche un’apertura ad una interiorità positiva e umana anche nelle situazioni più estreme dove la scelta del protagonista è verso l’aiuto e l’altro piuttosto che pensare solo a stesso. Le immagini surreali che descrivono l’interiorità e il sogno completano questo quadro di speranza. (mav)
Evil Does Not Exist di Ryusuke Hamaguchi
Il film racconta la quotidianità del piccolo villaggio di Mizubiki, vicino a Tokyo, una piccola oasi in mezzo ai boschi poco conosciuta e incontaminata dall’uomo. Presto però due giovani imprenditori decidono di costruirvi un glamping, un camping lussuoso che porterebbe ricchezza dalla città. Questo progetto implicherebbe l’inquinamento delle acque, e questa notizia porta tutti i villani a schierarvisi contro. Ma gli imprenditori non si fanno fermare dalle sagge opinioni dei cittadini, e decidono di andare avanti comunque nel loro piano.
Hamaguchi sceglie una narrazione apparentemente banale e piatta che sembra usare soltanto per applicare una regia contemplativa. Difatti, il film fotografa a lungo la natura, soffermandosi sui suoi dettagli e mostrandocela in tutta la sua poeticità. Così le riprese partono dalla cima di un albero innevato fino ad arrivare alle sue radici, scendendo lentamente lungo i suoi rami come a donarci per qualche minuto la serenità silenziosa della sua linfa vitale. In realtà Hamaguchi è ben lungi da questo; il suo obiettivo è ritrarre la civilizzazione estrema dell’uomo, che vuole a tutti i costi conquistare e dominare la natura, fino a rimanerne sopraffatto. Hamaguchi ci illude di poetizzare quello che è ormai il normale atto di prevaricazione dell’uomo sulla natura, facendoci rendere conto soltanto dopo della forza totalizzante del film, che, nella sua immensa semplicità e lentezza, spezza i suoi schemi alla fine, spiazzando completamente lo spettatore che non riesce a credere che un film fino a quel momento tanto lineare possa concludersi così. Evil does not exist dipinge l’effetto essenziale della civilizzazione costretta dell’uomo, mostrandoci che la natura non rimane mai in silenzio quando si sente minacciata: il cervo non attacca mai, spiega Takumi, il protagonista, tranne nel caso in cui non si senta attaccato. Ed ecco che anche il titolo, quando viene mostrato, rivela in sé la chiave: ‘not’ è scritto in rosso, ed è l’elemento che, se fino alla fine del film rimane veritiero, viene poi eliminato con la conclusione. Un film di primo acchito estremamente noioso e lento, voce narrante di una storia di una banalità sbalorditiva, inspiegabilmente avvolto da una leggera inquietudine (che si spiega solo con le ultime scene), che in realtà nasconde una potenza strabiliante, celata dietro il silenzio catartico ma non arrendevole della natura; questa sua forza invisibile, lascia un’impronta cocente nello spettatore attento, non nel mentre, né sulla conclusione, ma solo dopo un lungo ragionamento che fa comprendere d’un tratto tutte le scelte del regista e il messaggio tutt’altro che carezzevole bensì duro e spietato con cui Hamaguchi vuole rendere consapevole, spiazzandolo, l’uomo. Il film è stato premiato con il Leone D’argento Gran Premio della Giuria. (gg)
Green Border di Agnieszka Holland
Il film è suddiviso in quattro capitoli: la famiglia, la guardia, gli attivisti, Julia e l’epilogo sul conflitto tra Ucraina e Russia. Una coppia siriana con tre bambini e il padre di lui riesce ad arrivare in Bielorussia dopo essere stata cinque anni in un campo profughi, grazie ad un corridoio umanitario voluto dal leader bielorusso Lukasenko. In aereo conoscono un’insegnante afgana che condividerà con loro il passaggio in Polonia dove verranno subito fermati dalle guardie di Frontiera e rimandati indietro seguendo un rimpallo tra i due stati, venendo sempre meno i diritti umani con torture e sopraffazioni. In questa vicenda ci sarà la prospettiva del soldato polacco Janek che progressivamente prenderà consapevolezza delle direttive del governo e soprattutto delle sue conseguenze, gli attivisti che aiutano concretamente i rifugiati con cibo, vestiti, medicine e a richiedere l’asilo politico e la psicoterapeuta Julia che si unisce nel prestare aiuto dopo aver visto compiersi una tragedia a pochi passi da casa sua.
Il film, Premio della Giuria, si apre con una visione area a colori del bosco al confine tra Polonia e Bielorussia che sfuma in bianco e nero con una scritta verde del titolo, da subito a segnalare una strada senza via di uscita e un blocco che sono il fulcro del film. La fotografia di Tomaz Naumiuk rappresenta un elemento centrale che è quasi un ulteriore personaggio e protagonista. Questa infatti riesce a differenziare un bianco e nero netto e quasi grezzo degli inizi in cui descrive un conflitto polarizzato tra vittime/profughi e carnefici/soldati che si attenua progressivamente con l’inserimento di figure più complesse come la psicoterapeuta, ben interpretata da Maja Ostaszewska. Nel complesso il film riesce meglio di un documentario a descrivere tutte le parti in causa di questa situazione che perdura da tempo e lo fa senza scadere nella retorica pur prendendo chiaramente una posizione netta a sostegno delle vittime. Da sottolineare l’epilogo a colori con l’accoglienza di 20.000 profughi ucraini a fronte dei 30.000 morti dal 2014 in cerca dell’Europa.(mav)
Die Theorie von Allem di Timm Kröger
Girato in bianco e nero e frutto di una coproduzione tedesca, austriaca e svizzera, racconta il tentativo di un giovane fisico di spiegare alcuni strani avvenimenti verificatisi nelle Alpi svizzere durante un convegno di fisici.
Inizialmente il film sembra accattivante, e cattura l’attenzione dell’audience: infatti fa riemergere nello spettatore i ricordi del romanticismo caratteristico dei vecchi film, riprodotto perfettamente attraverso la musica e il ritmo cullante. La storia stimola numerose domande che man mano infittiscono il mistero attorno al protagonista e ai personaggi che lo circondano; ma mentre le domande continuano ad aumentare, le spiegazioni non s’affrettano ad arrivare, e lo spettatore si ritrova sempre più confuso sia sul genere dl film che sul messaggio che vuole proporre. Il regista Timm Kröger, infatti, tenta di emulare lo stile del maestro della suspense Alfred Hitchcock, usando i suoi stessi meccanismi narrativi in un contesto che però non si allinea minimamente con l’argomento di cui vuole trattare, facendo così diventare l’opera, con un cambiamento repentino e inaspettato, un thriller in cui si fatica a trovare il senso e ancor meno un significato. In questo modo, il film passa da essere interessante a tramutarsi in criptico per diventare infine incomprensibile e deludente. La tematica principale si va completamente a perdere vanificando un’idea che aveva tutto il potenziale per emergere e comunicare efficacemente grazie alle sue modalità espressive originali nella loro classicità.(gg)
Poor Things di Yorgos Lanthimos
Il medico e scienziato Godwin Baxter, riporta in vita la giovane Bella, morta suicida incinta nelle acque del Tamigi. L’esperimento riesce proprio grazie al feto, il cui cervello viene trasferito in quello della donna che all’inizio si muove in modo sgraziato e si esprime con dei versi. Il dottor Godwin, pur nel suo essere razionale e vittima di maltrattamenti, se ne prende cura in modo amorevole, cercando di proteggerla insieme al suo assistente Max McCandles che le fa da precettore e se ne innamora. In poco tempo Bella scopre la sessualità e diventa avida di stimoli pretendendo sempre maggiore libertà che lo scienziato fatica a concederle. Si approfitterà della situazione l’avvocato Duncan Wadderburn che, attratto da Belle, le promette di soddisfare tutti i suoi desideri portandola con sé a Lisbona. Belle però è inarrestabile nella sua sete di conoscenza e l’avvocato non avrà vita semplice.
Tratto dal romanzo omonimo di Alasdair Gray, il film riprende lo stile poliedrico del libro, intervallato da vignette e disegni che nel film introducono i diversi capitoli. Nella prima parte, in una Londra in bianco e nero, la casa di Godwin, è un mondo in perfetto stile Freaks, a partire da lui stesso, personaggio ibrido che digerisce mediante bolle, dove confina Bella insieme alle sue “creature”. Richiama Dogthoot, anche se in maniera più blanda rispetto all’oppressione claustrofobica presente in tutta la filmografia di Lanthimos. Quando segue l’emancipazione di Belle si apre al colore, e anche se l’atmosfera emotiva richiama quella cinica della Favorita, il film mostra gli orrori del mondo, il divario tra ricchi e poveri, l’oppressione mal celata della condizione femminile, pur conservando uno spirito meno rassegnato e perverso dei film precedenti. Permane un’affettività più calda e meno cerebrale in cui c’è il valore dato alla libertà e alla modalità di essere conquistata a caro prezzo anche se alla fine la protagonista si riconfina tra le mura domestiche, luogo in cui tutto ha avuto origine. Un coming of age che onora Mary Shelley con Emma Stone esilarante, in una ricerca di sé grottesca e profonda che ha meritato il Leone d’oro. (mav)
El conde di Pablo Larraín
Augusto Pinochet pretendeva che gli uomini a lui più vicini lo chiamassero “conte” e amava farsi fotografare indossando grandi occhiali da sole che lo facevano sembrare il protagonista di un gangster movie, le spalle cinte da un lungo mantello. Pablo Larraín ha raccontato che lo spunto del suo ultimo film, vincitore a Venezia del Premio Osella per la Migliore sceneggiatura, nasce proprio da una di queste fotografie. Fissava questa immagine, ha raccontato Larraín, e non riusciva a capacitarsi del fatto che il cileno più potente, crudele e sanguinario della storia fosse anche un uomo estremamente ridicolo, che gli ricordava allo stesso tempo i supercattivi dei cinecomic e Dracula di Bram Stoker. Pinochet non è mai stato il protagonista né in una serie tv né in un film, forse perché è troppo difficile raccontare quel che è stato davvero: sotteso in molte delle opere del regista cileno, da Tony Manero a Post Mortem, da No-I giorni dell’arcobaleno a Neruda, qui il Conte viene messo al centro della scena, e rappresenta il Male nella sua infinita capacità di manifestarsi nel tempo. Ma come rappresentare per immagini un tiranno? E come evitare che queste immagini riaccendano la sua luce infame, magari nelle forme di condivisione e interazione mediale di nuova generazione? El Conde risponde – o prova a rispondere – a queste domande.
La narrativa di genere esiste per creare un mondo parallelo in cui ambientare una finzione sufficientemente verosimile da far comprendere quello che la realtà non può spiegare. E quindi in El Conde Pinochet diventa un vampiro di duecentocinquant’anni, che si trascina per la Terra fin dai giorni del Re Sole e si reinventa ogni volta che c’è una rivoluzione da stroncare. Un vampiro grottesco e terrificante, che di giorno vaga per la campagna cilena in tuta Reebok e sneaker Nike, si regge in piedi grazie ad un deambulatore, non ricorda dove ha nascosto le sue ricchezze. Di notte va a caccia, mantello da Superman d’altri tempi, strappa cuori ancora palpitanti, li frulla e li beve finché sono caldi. A completare questo folle quadro, c’è poi una virginale suora esorcista che dalla Chiesa cattolica viene spedita ad annientare il demonio nascosto nel corpo di Pinochet. Ma sarà proprio quella la sua missione?
Raccontato in un bellissimo bianco e nero, che rende omaggio a Nosferatu di Murnau, Vampyr di Dreyer, Il dottor Stranamore e Barry Lyndon di Kubrick, film ai quali Larraín si è dichiaratamente ispirato, El Conde è un film eccentrico, sinuoso come le evoluzioni vampiresche nei cieli notturni e diurni, gotico e politico. Riesce infine a raccontare una figura mostruosa, inanellando i suoi misfatti e le sue ruberie senza mai perdere il ritmo di uno humour grottesco e perfido che tiene insieme i fili della Storia, una Storia nella quale nessuno dei personaggi è degno di redenzione: l’ombra di Pinochet vampirizza ancora il presente cileno, non essendo riuscito il Paese a fare i conti con quella pesante eredità reazionaria e famelica.(fs)
Ferrari di Michael Mann
Tratto dalla biografia Enzo Ferrari – The Man and the Machine (Penguin Books Ltd, 2019) di Brock Yates, la nuova sfida di Michael Mann non è tanto un biopic nel senso classico del termine, quanto, con le parole del montatore Pietro Scalia, «un film concentrato in un momento preciso della vita di Enzo Ferrari nel 1957, quando si intrecciano importanti eventi familiari e lavorativi. È un film complesso, un dramma shakespeariano». Nell’estate del 1957 l’ex pilota automobilistico Enzo Ferrari è in crisi: l’attività che, partendo da zero, lui e la moglie Laura hanno costruito in dieci anni corre il rischio della bancarotta; oltre a questo, il matrimonio tra i due è ancora duramente messo alla prova dalla morte del figlio Dino, prematuramente scomparso nel 1956 a soli 24 anni, e dalla relazione extraconiugale di Ferrari con Laura Lardi. In un contesto cosi delicato, Enzo decide di scommettere le sorti dell’azienda su un’unica corsa lunga 1.600 km che attraversa l’Italia, da Brescia a Roma e ritorno: l’iconica Mille Miglia.
A quasi dieci anni di distanza da Blackhat, con il quale Mann trovava immagini ardite e sperimentali per rappresentare l’irrappresentabile tecnologia digitale, il passaggio a un racconto più classico su una “tranche de vie” di un campione del capitalismo novecentesco, scisso tra affari e sentimenti, corpo e velocità, genera purtroppo un film irrisolto e scentrato, che non sembra nemmeno un film di Michael Mann. Divisa tra dramma familiare e memorabile rimonta – almeno nelle intenzioni – la pellicola non riesce a sfruttare il fascino del Mago, l’audacia della sua visione, la meraviglia futuristica del Cavallino per rendere la narrazione altrettanto epica. L’Enzo Ferrari di Adam Driver – che pure riesce a tratteggiare con il solo sguardo tutta la malinconia che si cela in un uomo vincente, ma allo stesso tempo fragile – non ha la capacità di far dimenticare allo spettatore di vedere e ascoltare un attore americano che interpreta uno degli uomini più importanti del Novecento italiano. La sospensione di incredulità non avviene, non si entra emotivamente in connessione con lui, con le sue ambizioni, con il suo dolore, e nemmeno con il contesto nel quale Ferrari si muove, sebbene Mann tenti di dialogare costantemente con l’immaginario dell’Italia costruito dal cinema americano: dal telefono che squilla a vuoto all’inizio del film, come nell’incipit di C’era una volta in America, al montaggio alternato tra la corsa in pista della Maserati e la “messa degli operai”, che rimanda in tutta evidenza al Padrino, fino ad arrivare alla scena della Traviata, con l’aria Parigi, o cara alternata ai ricordi del figlio Dino, che ricorda la morte di Mary, la figlia di Michael Corleone sulle scale del Teatro Massimo di Palermo dopo la rappresentazione della Cavalleria rusticana nel terzo capitolo della saga.
Anche nelle riprese delle corse manca un’originalità registica che lo differenzi, lo renda unico: la parte finale infatti, invece di aprire a possibili esperimenti visivi (tornano alla mente certi passaggi esaltanti di Collateral o la complessità delle scene d’azione di Nemico pubblico-Public Enemies e dello stesso Blackhat), finisce per essere una didascalica ricostruzione della celebre tragedia di Guidizzolo, in cui morirono il pilota Alfonso de Portago e nove persone del pubblico, culmine drammatico di un film che fatica a trovare momenti visivamente e narrativamente forti.(fs)
Adagio di Stefano Sollima
L’adolescente Manuel si trova, suo malgrado, in una situazione che si rivela in pochissimo tempo più grande di lui: la polizia lo ricatta e per questo inizialmente accetta di fare da infiltrato ad una festa di un imprenditore molto in vista a Roma; teme, tuttavia, di essere incastrato a sua volta e scappa. I poliziotti sono in realtà corrotti e Manuel diventa una minaccia pronta a rovinare i loro giri. Al ragazzo non resta che ricercare i vecchi, in tutti i sensi, colleghi della mala del padre Daytona che, ormai, affetto da demenza è fuori dai giochi. Polniuman che lo ha visto crescere, lo indirizzerà verso il Cammello combattuto tra aiutarlo perché gli ricorda il figlio morto ammazzato o ignorarlo lasciandolo al suo destino, vendicandosi così di Daytona, che ne aveva cagionato la morte.
Adagio, racconta Sollima, è stato il pretesto per tornare a girare a Roma di cui sentiva una profonda mancanza. Il clima malinconico è quello che colpisce di questo film di genere, in cui i protagonisti che idealmente hanno fatto parte dei film di Sollima (Suburra e soprattutto Romanzo Criminale) è come se fossero rimasti ad aspettarlo, ritrovandosi vecchi e smarriti rispetto ad un ruolo e ad un’identità criminale ormai superata e mai veramente sostituita da altro di autentico e realizzato. Sono figure in qualche modo sospese a cui Manuel dà loro la speranza di essere, di realizzarsi, in una paternità che li completi e che li legittimi. In particolare questo è il compito del Cammello, malato terminale, bloccato in un lutto carico di odio, che si sente chiamato a compiere un destino che dia un senso a lui che non ha più nulla da perdere. Adagio, un tempo musicale che subentra forse dopo un’ouverture implicita ricca di fasto, come un’ultima occasione per rivelare in una fase della vita necessariamente lenta, la natura di questi personaggi. L’interpretazione magnifica di un grande cast che va in profondità e rende umani quelli che nascono come delle caricature, riempie un’idea alla base forse un po’ debole. (mav)
Kobieta Z. di Małgorzata Szumowska e Michał Englert
In un piccolo paese in Polonia, un uomo, padre di famiglia e affettuoso marito, si trova ad affrontare a un’età avanzata un dubbio che da sempre ha accompagnato la sua esistenza: il sentirsi donna. Andrezj decide di accettare questo suo bisogno, e si trova costretto ad interfacciarsi con una nuova realtà, dove tutte le persone care a fianco a lui lo allontanano senza capirlo, e le difficoltà sono all’ordine del giorno. Ma il suo è un bisogno naturale e fisiologico, e decide comunque di non mentire mai più a sé stesso e agli altri e di mostrarsi totalmente per ciò che è, a costo di non avere più un lavoro, né una famiglia.
Małgorzata Szumowska e Michał Englert scrivono e dirigono un film di produzione polocco-svedese che, nonostante riproponga una tematica non originale (basti pensare a The danish girl), si presenta con elementi altri e nuovi: anzitutto il luogo, la Polonia rurale, il cui contesto, sebbene poco approfondito, viene mostrato in uno squarcio che ci permette di porre l’occhio in una circostanza ben poco conosciuta; la fase di realizzazione, avvenuta in un’età matura e quindi in un momento in cui l’accettazione da parte dei coetanei è molto più complessa, oltretutto avendo già una famiglia; il focus sulle questioni legali più che sui commenti esplicitamente discriminatori: la violenza velata ma costante che si cela dietro il buonismo delle facciate legali e dell’educazione. Nonostante gli spunti interessanti, però, il film pecca nel ritmo, eccessivamente lento in alcuni punti (come, ad esempio, il processo d’accettazione da parte della moglie) e nella necessaria volontà di aprire e chiudere un cerchio, proponendo la storia di Andrezj dall’infanzia fino alla vecchiaia. Questa scelta rende il film meno prorompente. Infatti, costretto a focalizzarsi su troppi aspetti dell’esistenza di una persona, finisce per non riuscire nell’approfondirne adeguatamente alcuni che vengono proposti come rilevanti, ma senza essere valorizzati (l’adolescenza, l’operazione nella scena finale). Il film viene portato avanti anche grazie all’attore protagonista, Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, che riesce a rendere perfettamente la dolcezza e la sofferenza di un personaggio non facile da far emergere, in quanto non dotato di una personalità definita, il che fa perdere ancora di più la potenziale forza del film. (gg)
Holly di Fien Troch
Fien Troch dirige un dramma prodotto tra Lussemburgo, Belgio e Olanda, che racconta la storia di Holly, un’adolescente presa di mira dai propri compagni per i suoi strambi comportamenti, la cui vita viene un giorno stravolta quando viene notata per la sua empatia fuori dalla norma. ‘Holly’, ci presenta un’adolescente che inizialmente non si sente a suo agio con i favoritismi che le vengono offerti per il suo ruolo di ‘santa’, ma che decide poi di servirsene oltre il necessario, facendosi pagare per le sue sedute come benefattrice e comunicante con l’aldilà. La giovane finisce però sola, e spogliata di tutti gli oggetti che aveva comprato approfittandosi delle debolezze delle persone.
La trama mostra inizialmente una grande potenzialità, e rende lo spettatore curioso della ‘morale’ del film; ma purtroppo i punti di forza che sembra avere svaniscono totalmente col proseguire del film, che si rivela sconclusionato, incomprensibile e confuso e non all’altezza del concorso ufficiale Nel suo cercare di mostrare la vacuità dell’essere umano, la sua tendenza al denaro e non al benessere altrui, si perde, decentrando completamente il focus del racconto, senza lasciare alcun segno nello spettatore. La regia è scolastica e rimane molto attaccata alla protagonista (Cathalina Geeraerts), la cui performance, monocorde e poco emozionale, fatica ad arrivare a chi ha di fronte, facendo perdere ancora di più il senso profondo del film, che si annulla completamente. (gg)
Dalle altre sezioni
Daaaaaali! di Quentin Dupieux
Una giovane giornalista vuole fare un’intervista al grande Salvador Dalì che sembra però non essere mai soddisfatto dalle sue proposte. Entrambi non si danno tregua: Dalì si fa tentare, poi a sua volta è lui a proporsi, il progetto diventa così sembra più ambizioso ma il narcisismo sembra non poter concepire un’opera che possa contenere il suo ego.
Il film è strepitoso nel suo narrarsi e rinarrarsi in modo surreale, si moltiplica come gli attori che interpretano Dalì, cinque per l’esattezza, sempre annunciati a gran voce e contraddistinti dagli eccentrici baffi. Dalì è iperbolico in tutto, dal modo di parlare a quello di sognare, richiama Il fascino discreto della borghesia cita Buñuel, nella cena in cui il sogno ricomincia sempre da capo e non lascia andare lo spettatore come ne L’Angelo sterminatore. Il film, come in un gioco di specchi, riprende scene e scenette, le arricchisce senza mai dare loro un senso anzi stravolgendolo sempre di più, senza stancare, diverte in modo intelligente. L’autore ha dichiarato “Per scrivere e dirigere questo tributo, mi sono connesso con la coscienza cosmica di Salvador Dalí e mi sono lasciato guidare, a occhi chiusi” e con uno stile dissacrante come nel suo precedente Due uomini e una mosca fa entrare, come accadeva in Essere John Malkovich, in questa personalità poliedrica e grandiosa. (mav)
Explanation for Everything di Gabor Reisz
Abel è alle prese con lo studio per l’esame di maturità continuamente distratto dall’amore per la sua compagna di classe e amica Janka che però è innamorata di Jakab, idealista professore di storia. Il padre ha posizioni politiche nazionaliste perché figlio di un architetto morto costruendo il ponte della libertà. All’esame, però, il ragazzo fa scena muta e nella commissione, Jakab fa l’errore di chiedergli come mai indossi la coccarda tricolore ma il ragazzo oltre e fare scena muta, non risponde neanche a questa semplice domanda. Bocciato, non riesce a confessare al padre della sua impreparazione e dirà che ciò è stato causato dalle sue idee politiche in contrasto con quelle del suo professore. Una giornalista in cerca di scoop userà la vicenda per farne un caso mediatico e porterà alla luce le fragilità dei protagonisti.
Suddiviso in capitoli che ricoprono un arco temporale di 9 giorni, il film inizia con una dimensione di formato molto piccola che riprende le celebrazioni per l’anniversario dell’indipendenza nazionale del 15 marzo 1848, poi si estende fino ai 4:3 a segno di una dimensione domestica, popolare ma anche ristretta che riprende dei punti di vista senza mai una visione ampia del quadro di insieme, compito che lascia volentieri allo spettatore. Il tema è uno spaccato della società attuale ungherese, il dibattito tra i nazionalisti legati a Orban e gli antigovernativi come viene appunto annunciato dal padre di Abel quando afferma che “il mondo si divide in patrioti o traditori”. C’è anche una terza voce, quella dei giovani: alcuni come Janka leggono criticamente quello che succede, e altri, come Abel, si estraniano da tutto e tutti senza memoria storica. Un dettaglio come la coccarda simbolo nazionale e nazionalistico sulla giacca di Abel diventa il pretesto per interrogare e interrogarsi sull’orientamento di una nazione ancora molto sofferente che non riesce a dialogare e individuare un punto di accordo, trova una spiegazione per tutto ma solo dal proprio punto di vista. La vicenda, anche se profondamente inserita nel contesto storico-politico ungherese, è comunque interessante per il ruolo dei media e della scuola nella formazione etica in generale e ha meritatamente vinto nella sezione Orizzonti.(mav)
El Paraiso di Enrico Maria Artale
Julio Cesar, è un quarantenne un po’ impacciato che vive con la madre di origini colombiane, estrosa e dirompente: con lei ha una relazione simbiotica, morbosa e conflittuale da cui non riesce a separarsi. La donna ha ricreato nella periferia romana una quotidianità fatta di spaccio, balli latinoamericani e canzoni d’amore dove il figlio è, suo malgrado, sempre coinvolto. Un giorno, la bella Ines arriva a Roma come sostituta del corriere della droga di famiglia e Julio se ne innamora perdutamente. Quando Ines riparte, vorrebbe andare con lei in Colombia ma la madre glielo impedisce di tutti i modi, anche quando la situazione degenera.
Artale, vincitore per la migliore sceneggiatura per la sezione Orizzonti, riesce a ricreare un microcosmo romano-sudamericano perfetto per questo duetto madre-figlio che non riesce a separarsi. La bravura dei protagonisti (da citare Margarita Rosa de Francisco che ha vinto come miglior interpretazione femminile) e i dialoghi serrati e ambivalenti ne fanno un film singolare e brillante. In particolare una chicca del film, che non sarà svelata per non togliere nulla allo spettatore, è geniale per il risvolto simbolico-psicoanalitico, legato al concetto di incorporazione del lutto, nella dinamica relazionale madre-figlio. Il film è così ben costruito che risulta credibile grazie ai personaggi tridimensionali che quasi prendono vita sulla loro barca El Paraiso (da qui il titolo). Artale, attingendo anche dal personale, si muove in modo agile tra i registri comico e drammatico in un film che, in alcuni momenti, sfiora la poesia. (mav)
L’invenzione della neve di Vittorio Moroni
Carmen, seguita fin da piccola dai Servizi Sociali, intraprende la sua personale lotta contro l’ex compagno Massimo e l’assistente sociale per non perdere la potestà della figlia Giada di 5 anni che il giudice minaccia di toglierle definitivamente a causa della sua incostanza e instabilità. Al momento la piccola vive con il padre e la nonna paterna mentre Carmen può vederla solo ogni 15 giorni, decisione con cui la protagonista non riesce a fare i conti tentando disperatamente di tornare a quel tempo in cui con Massimo le potevano narrare una favola sulla sua nascita. Una storia di persecuzioni che si inscrive nell’immaginario e nella pelle tatuata di Carmen in cui veste i panni prima di una sirena e poi di una tigre per proteggere la figlia, e dove anche le stelle si possono trasformare in fiocchi di neve. Anche quando un’altra realtà sarebbe possibile, l’ostinazione di Carmen ne determina un repentino declino. Riuscirà a riconquistare Massimo? E lui, alla fine, potrà salvarla? O forse, ancora, come nella storia di Giada, lo farà la neve?
Il film, presentato alle Giornate degli Autori, con i diversi formati che seguono l’involuzione di prospettiva di Carmen, ha la capacità di risultare immediato pur nella sua evidente complessità stilistica. In primis la scelta di effettuare sei blocchi di piano sequenza, in cui i protagonisti hanno “reso viva” la sceneggiatura. In quei blocchi da 25 minuti ciascuno, gli attori non potevano interrompere il take e se avveniva qualche imprevisto, questo doveva essere utilizzato nell’interpretazione, ovvero creare “un’opportunità” da sfruttare. il film inoltre inizia con un’animazione di Gianluigi Toccafondo fatta di più di 4000 disegni che sono stati poi animati, a cui ha dedicato tre anni di lavoro. La macchina è poi spesso attaccata al corpo di Carmen senza restituirne un’immagine unitaria, per entrare e ritrarre la personalità fatta di parti fragili, impulsive, frammentate appunto. I due attori protagonisti poi sono stati bravissimi nel rendere un rapporto di coppia intriso di ambivalenze, opposti, contraddizioni e oscillazioni repentine in cui non possono e non riescono ad andare avanti e perpetuano in una mutua distruzione reciproca. Il regista ha più volte sottolineato come il cuore di questo film sia un paradosso ossia stare in una condizione di profonda empatia con la protagonista pur non approvando le sue modalità e in questo ha perfettamente centrato il punto con un effetto di grande naturalezza e dimensione di realtà e lo fa integrando attenzione al dettaglio, improvvisazione, animazione e piccoli salti temporali. Chapeau.(mav)
Coup de chance di Woody Allen
Woody Allen torna a Parigi e, per la prima volta in un suo film, si parla in francese (e si ammicca alla Nouvelle Vague). Che ci si ritrovi dentro un racconto del maestro newyorkese è chiaro sin dalla prima scena, su quel marciapiede illuminato dalle calde luci di Vittorio Storaro dove Alain riconosce nel viavai l’ex compagna di liceo Fanny. Lui è uno spiantato scrittore bohémien che non ha messo radici ed è a Parigi per concludere il suo ultimo romanzo, mentre lei, oltre ad essere affermata nel lavoro, è soprattutto “inquadrata” a livello sentimentale: è infatti sposata con l’altolocato Jean, che per mestiere “rende i ricchi ancora più ricchi” e per diletto (e opportunità) frequenta i circoli dell’alta società esponendola come “moglie trofeo”. Fanny e Alain iniziano a frequentarsi e si avvicinano sempre di più, mentre Jean dimostra una gelosia sempre più incontrollata.
Con una lucidità, un’eleganza e un incedere che non fanno provare nostalgia verso i suoi film migliori, la cinquantesima opera di Woody Allen, presentata fuori concorso , è una sorta di controcanto in commedia del ben più cupo Match Point, o, se si vuole, una versione dark di Midnight in Paris, altro gioiello ambientato in una città nella quale Allen è particolarmente ispirato. Dolceamara riflessione sul senso della vita, sul peso delle coincidenze, sull’incidenza della sorte, è anche un’analisi al vetriolo della violenza repressa che può nascondersi in un matrimonio apparentemente perfetto. Grazie a una sceneggiatura impeccabile e a un eccellente cast di attori francesi (tra i quali svettano Melvil Poupaud, che incarna alla perfezione il prototipo dell’uomo affabile, premuroso, possessivo e deciso a tutto affinché la sua fortuna non esca dal binario prestabilito, e Valérie Lemercier, ironica ma non umoristica versione della madre ebraica che vuole avere tutto sotto controllo), Coup de chance è una deliziosa commedia romantica capace di dialogare con le dinamiche del thriller ma senza mai rimanerne succube, e vanta uno dei finali più brillanti di tutta la carriera del regista. Per quanto possiamo convincerci – e i soldi certo aiutano – che la buona sorte sia una compagna da sedurre e chiamare a noi con qualsiasi metodo, la fatalità è sempre dietro l’angolo. O dietro le fronde di qualche albero. (mav)
The Palace di Roman Polanski
Presentato fuori concorso,è una commedia coprodotta tra Italia, Svizzera, Polonia e Francia che viene ambientata nel Capodanno 1999 nel lussuoso hotel svizzero Palace Hotel di Gstaad. Polanski racconta le vicissitudini e i bizzarri comportamenti di alcune figure dell’alta società, che decidono di riunirsi nel prestigioso albergo per vivere una notte all’insegna della ricchezza e del divertimento. Nell’aspettarsi però di avere sempre tutto, anche più di ciò che gli è dovuto, i personaggi continuano a mettersi in ridicolo e a ostentare una raffinatezza che in realtà non gli appartiene. In questo marasma di volti e richieste, il direttore dell’albergo cerca di soddisfare tutti mantenendo sempre un sorriso gentile e cercando di non mostrare la disperazione che prova nel tentativo di rendere tutti felici accontentandoli anche nell’impossibile.
Nonostante la commedia abbia ricevuto molte più critiche che apprezzamenti, venendo definita come un ‘cinepanettone straniero’, si prospetta comunque come un’ora e mezza leggera e piacevole, che annulla totalmente, nella sua esagerazione, i tempi drammatici tipici della maggior parte dei film. Polanski non si pone alcun limite, e questo genera nello spettatore, in base alla sua sensibilità, o un’ondata di disgusto e ribrezzo, oppure una semplice risata divertita. Ponendosi l’obiettivo di ridicolizzare, attraverso colori vivacissimi e infiniti oggetti di scena, tutta l’alta società, la smaschera: così le donne non pensano ad altro se non alla chirurgia estetica e ai loro animali domestici, gli uomini passano il loro tempo a ingegnarsi in nuove strategie per rubare l’altrui patrimonio, dimenticandosi della pietà e della famiglia, o decidono di darsi a una vita fatta di eccessi e sregolatezze, e a donne nel fiore degli anni. La commedia decide di non seguire un filo logico, e tantomeno un senso vero e proprio, per abbandonarsi al disordine che alla fine del film lascia lo spettatore in un punto di non ritorno, con un simbolo: un pinguino e un cane in un atto d’amore privo di senso. (gg)
La meravigliosa storia di Henry Sugar di Wes Anderson
La meravigliosa storia di Henry Sugar è una lettera d’amore che rinnova l’ammirazione di Wes Anderson per lo scrittore Roald Dahl dopo Fantastic Mr. Fox e il suo meraviglioso stop motion. Presentato fuori concorso, il cortometraggio è il primo di quattro opere – tutte ispirate ai lavori di Dahl – commissionate al regista da Netflix. E non poteva esserci connubio migliore, visto che lo spirito immaginifico e le trame, esili ma ricche di stratagemmi. di Dahl si sposano perfettamente con l’idea di Cinema di Anderson.
La storia è molto semplice: Henry Sugar, un ricco uomo dalle ambizioni decisamente narcisistiche, trova per caso un quaderno di memorie nel quale si racconta di un guru indiano che riesce a vedere senza utilizzare gli occhi. Decide così di apprendere lui stesso questa leggendaria tecnica per barare al casinò. Tra escamotage, prove fallite e molte gag, La meravigliosa storia di Henry Sugar torna a quella compartimentazione del racconto già vista in Grand Budapest Hotel, con il quale il cortometraggio ha molto in comune: dal sound al set design (i diorami di Adam Stockhausen fanno letteralmente rivivere le pagine del materiale originale) fino al ritorno di Ralph Fiennes dopo la spassosa interpretazione di Gustave H.
Il narratore della storia infatti… è proprio Roald Dahl. Un Roald Dahl circondato da pile di carta, matite, gomme da cancellare e trucioli. Come in Asteroid City, Anderson utilizza una struttura a matrioska in cui il Dahl di Fiennes ci introduce alla storia del protagonista principale Henry Sugar (Benedict Cumberbatch), che in un giorno di pioggia studia il libro di memorie del Dr. Chatterjee (Dev Patel), che a sua volta racconta la storia di una stella del circo, Imdad Khan (Ben Kingsley), che esegue acrobazie incredibili nonostante sia cieco (con la testa racchiusa in una bendatura di gesso). Il regista traspone le parole di Dahl con una cura al limite della venerazione e il film scorre veloce grazie al ritmo combinato dei dialoghi e dei set che cambiano e si trasformano all’infinito: la cinecamera rimane dentro e attorno alla stessa area e i set si muovono attorno a essa, conferendo al film una qualità onirica e insieme stordita, appropriata per il meraviglioso stile narrativo dello scrittore britannico.
Nonostante la durata di appena trentanove minuti, La meravigliosa storia di Henry Sugar è insomma un’immersione nello stile ricco, divertente e unico di uno dei registi più riconoscibili degli ultimi trent’anni di cinema.(fs)
Hit man di Richard Linklater
Peccato che uno dei migliori film passati all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia fosse fuori concorso: Hit Man di Richard Linklater – che tra l’altro avrebbe benissimo fatto il paio con The Killer di David Fincher, come due variazioni sullo stesso tema – è infatti uno squisito mix tra commedia degli equivoci, noir, thriller e dramma psicologico.
“State per vedere una storia quasi vera” annuncia una scritta scherzosa sui titoli di testa. In effetti il film è ispirato a una vicenda risalente a una ventina d’anni fa avvenuta in Texas, anche se il regista e il co-sceneggiatore/attore Glen Powell la trasportano a New Orleans. Hit Man significa sicario, assassino a contratto, e Gary Johnson tale appare ai clienti che lo ingaggiano – sotto le mentite spoglie del glaciale e senza scrupoli Ron – per far fuori qualcuno o qualcuna. Solo che il bel trentenne in realtà è un pacifico professore di filosofia, anche un po’ insignificante, e il lavoro da finto killer è part-time, per conto della polizia: lui si finge esecutore prezzolato, con tanto di microfono sotto la camicia e camuffamenti fantasiosi, con lo scopo di far arrestare chi progetta il crimine. Quando però viene contattato da Madison, una donna bellissima che vuole far uccidere l’ex marito violento, finisce per innamorarsene e tutto si complica.
Richard Linklater appartiene a quella rara categoria di autori la cui filmografia, pur rimanendo spesso all’interno dei confini della commedia, presenta un’eterogeneità tale da mostrare una costante voglia di rinnovamento. Basti pensare a film come A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare (2006) oppure a Tutti vogliono qualcosa (2016), che mettono in luce un intelligente aggiornamento rispettivamente delle tecniche linguistiche e della rielaborazione della commedia adolescenziale. Hit Man (ri)conferma la capacità di Linklater di sorprendere pur continuando sulla scia di una rielaborazione del genere comedy: neanche questa volta, infatti, realizza una semplice commedia tradizionale, quanto piuttosto un film che possiede il respiro delle grandi commedie classiche degli anni trenta. Linklater guarda ad Howard Hawks per imbastire una vera e propria screwball comedy contemporanea che vive di quella dinamicità, velocità, sregolatezza di film come Susanna! (1938) e La signora del venerdì (1940), e il rapporto tra Gary/Ron e Madison – con tanto di continui ribaltamenti dei ruoli – e il loro modo di interagire e dialogare incarna appieno il senso della screwball comedy hawksiana.
“Scegliete l’identità che volete per voi” è il consiglio finale, in linea con l’andamento sbarazzino del film, quasi una parodia involontaria di The Killer di Fincher, nonché un felice esempio di cinema sofisticato e popolare insieme scritto magistralmente. Glen Powell è strepitoso nell’alternare il registro fragile usato per interpretare Gary con un’ostentata e sexy sicurezza quando è il momento di calarsi nei panni di Ron, e Adria Arjona, che interpreta Madison, è una femme fatale fantastica.(fs)
Making of di Cédric Kahn
Fare film sul “fare film” è un rito di passaggio per molti registi. Fellini lo ha fatto con 8½, Truffaut con Effetto notte, Godard con Il disprezzo e Fassbinder con Attenzione alla puttana santa. Più recentemente, Tarantino ci ha regalato C’era una volta a… Hollywood, Spielberg The Fabelmans, Michel Hazavanicius ha realizzato Final Cut e Damien Chazelle Babylon. Tutti questi film sul dietro le quinte sono accomunati dallo stesso tema, ossia che il cinema è un lavoro che può mettere a dura prova tutte le persone coinvolte, soprattutto i registi. E questo è certamente uno dei principali insegnamenti che si possono trarre dalla variazione sul tema, molto francese, di Cédric Kahn, Making Of, presentato in anteprima fuori concorso..
La pellicola è infatti essenzialmente una commedia sulla fatica del cinema nella vita privata di chi lo realizza quotidianamente, ma anche sulla sua necessarietà, sulla sua caparbia resistenza alle questioni sentimentali e finanziarie del mondo di oggi. Come dice il produttore verso il finale, “il cinema è una droga”: nessuno si ritira davvero, tutti ambiscono alla morte di Molière, in scena, cioè sul set, lavorando. Senza cinema non si vive, perché il cinema è la vita.
Making Of affronta tutto questo facendo incrociare e mettendo allo specchio i destini di Simon, regista cinquantenne più affranto dalla stanchezza che ispirato dagli ideali di cui il suo film vorrebbe farsi portavoce (il sempre irresistibile Denis Podalydès), e Joseph, pizzaiolo aspirante filmmaker (Stefan Crepon, perfetto nell’incarnare il talento grezzo e la passione che scorrono nelle vene di un futuro cineasta). Sono i due cardini di una storia che racconta le riprese di un film ispirato alla vicenda reale di operai che lottano per impedire la delocalizzazione della fabbrica in cui lavorano.
Naturalmente i problemi non tardano ad arrivare: i giovani e rampanti coproduttori vorrebbero un lieto fine per vederlo come commedia sociale, il regista tiene il punto sulla dimensione tragica, il produttore sparisce, la direttrice di produzione non sa come far quadrare i conti, gli interpreti sbarellano. Tutto è filtrato dallo sguardo di Joseph, cooptato in corsa e per caso con l’incarico di realizzare il making of del film.
Quando si arriva al punto di rottura – le riprese del film di Simon si interrompono perché dopo settimane di attesa i soldi non arrivano più – attori e operatori devono decidere se portare a termine le riprese senza compensi economici, in nome dell’arte. La storia di sfruttamento lavorativo che il regista vuole denunciare fa irruzione nella vita “reale” del set, la verità si sovrappone alla fiction e paradossalmente il dietro le quinte che sta girando Joseph potrebbe essere l’unico vero film possibile.
Making Of è tanti film in uno: il “film nel film” che si pone come termometro dei conflitti sociali francesi e il “film attorno al film” che cerca di farsi allegoria dei rapporti di forza nel capitalismo; la catabasi di un regista alle prese con il fantasma del fallimento e il battesimo del fuoco di colui che sarà un autore di domani (il making of rivela già uno sguardo personale e carismatico); una commedia su un gruppo di sconfitti che cerca disperatamente di portare a casa la giornata (una sorta di Boris meno leggero, in cui c’è anche un attore ridicolo che si prende molto sul serio, interpretato da Jonathan Cohen) e un affresco teorico che mette in scena i conflitti nella società attraverso le crepe di un microcosmo. Effetto notte è lontano, ma comunque il film è vivo e umano, consapevole che, sì, se stiamo qui a parlarne, forse davvero “il cinema è una droga”.(fs)
Sidonie au Japon di Elise Girard
In visita per la prima volta in Giappone in occasione della ripubblicazione del suo primo libro (intitolato L’ombre portée), la scrittrice francese Sidonie, invitata dal suo editore locale Kenzo Mizoguchi, arriva in terra nipponica con il fardello dell’immenso dolore della morte accidentale del marito avvenuta anni prima. All’arrivo, l’uomo la attende di persona, per accompagnarla nel tour promozionale del libro e allo stesso tempo nell’esplorazione di alcune delle meraviglie del Paese. Da un albergo all’altro, tra ripetuti viaggi (in auto, treno, traghetto) e incontri con la stampa, Sidonie va anche alla scoperta di Kenzo, uomo profondo ed enigmatico che in un francese un po’ ruvido la aiuta a rimettere in sesto la sua prospettiva esistenziale. Presentazione dopo presentazione, e passando per una serie di visite turistiche a Kyoto e dintorni (il Tōdai-ji nel parco di Nara con la sua statua del Buddha alta 16 metri, il tempio di Hōnen, l’isola di Naoshima, i ciliegi in fiore), Sidonie e Kenzo si avvicinano a piccoli passi l’uno all’altra, superando gradualmente i confini delle fortissime differenze culturali (inizialmente fonte di scene umoristiche al limite del burlesco), fino ad entrare nella zona dei segreti intimi e dei sentimenti nascenti. Ma “in Giappone i fantasmi vivono intorno a noi” e il marito defunto, il dispettoso Antoine, riappare misteriosamente…
La caratteristica più intrigante del film è proprio la capacità della regista Elise Girard di eviscerare dai luoghi filmati tutta la loro densità culturale: il Giappone è rappresentato come un paese dominato da una spazialità profondamente spettrale, quasi nascondesse sotto la superficie l’accesso al mondo spirituale. Ed è solo prendendo in considerazione l’animismo tipico dello shintoismo, per cui gli spiriti divini vivono in ogni cosa, che è possibile comprendere lo schema con cui Sidonie au Japon immerge la protagonista in una realtà altamente catartica. Il Giappone diviene dunque il luogo della stasi, un territorio le cui radici culturali permettono allo straniero/visitatore di lasciare indietro – anche solo per un istante – le sofferenze maturate nel proprio contesto di provenienza, fino ad entrare in contatto con una realtà completamente estranea e dove tutto richiama fenomeni noti e conosciuti, ma in cui ogni cosa risulta perlopiù differente.
Lo stile personalissimo e sottilmente anticonformista della regista francese, già apprezzato nei suoi primi due lungometraggi (Belleville Tokyo e Drôles d’oiseaux), si esprime perfettamente in questa sua nuova opera, presentato alle Giornate degli Autori. Come le parole “niente” e “silenzio” iscritte sulla tomba dello scrittore Jun’ichirō Tanizaki, oggetto di una visita da parte della protagonista, il film trae la sua quintessenza da un minimalismo molto sofisticato che tuttavia esprime molto e offre due ruoli molto belli a Isabelle Huppert e Tsuyoshi Ihara.(fs)
Vampire humaniste cherche suicidaire consentant di Ariane Louis-Seize
Vincitore con merito del premio per il miglior film alle Giornate degli Autori, Vampire humaniste cherche suicidaire consentant – già il titolo è tutto un programma – è l’esordio al lungometraggio della regista canadese Ariane Louis-Seize e ha per protagonista Sasha, una giovane vampira che fin da bambina manifesta quello che, dal punto di vista dei vampiri, costituisce un grave “problema comportamentale”: l’empatia per gli esseri umani. Quando infatti la famiglia divora il clown ingaggiato per il suo decimo compleanno, la piccola Sacha rimane traumatizzata con sommo sconcerto dei suoi cari, che avevano assunto il pagliaccio più come “portata principale” che come intrattenimento. Sasha cresce così nella preoccupazione dei genitori, che non sanno come aiutarla e sono frustrati da questa sua natura fuori dall’ordine delle cose. Tutto cambia, però, quando la ragazza incontra Paul, un compagno di scuola timido e infelice che ha deciso di togliersi la vita: Paul è disposto a immolarsi e nutrire l’amica con il proprio sacrificio, ma anche a queste condizioni la coscienza di Sasha non le dà pace, e quello che doveva essere un breve “incontro mortale” si trasforma in un catartico viaggio di formazione per esaudire gli “ultimi desideri” di Paul.
Fin dagli albori della storia del cinema, i vampiri hanno avuto un grande fascino visivo, basti pensare ai film sul Conte Dracula impersonato da attori come Bela Lugosi o Christopher Lee; ancora oggi, grazie a film e serie televisive – tra tutti si può ricordare quella che probabilmente è la più celebre, Twilight – questo genere rimane sulla cresta dell’onda e contribuisce a rivitalizzare l’horror in chiave romantica e adolescenziale, portandolo ad un nuovo livello di popolarità. Vampire humaniste cherche suicidaire consentant si inserisce in questo solco ma compie un passo ulteriore: si tratta infatti di una deliziosa commedia nera in cui il “vampiresco” è solo il perno intorno a cui ruotano i temi più classici del racconto di formazione, come la condizione di emarginazione, la scoperta della sessualità (l’appuntamento in cui Sasha dovrebbe uccidere Paul viene messo in scena con le caratteristiche tipiche di un rendez-vous per un primo rapporto tra adolescenti), e, soprattutto, la crisi identitaria e la ricerca di un proprio posto nel mondo della cosiddetta Generazione Z.
La giovane regista canadese confeziona un’opera originale e divertente, con più di uno spunto su cui riflettere e uno stile assolutamente godibile. Nato per esorcizzare le paure dell’autrice riguardo alla morte, oltre che per curiosità verso la figura del vampiro, il progetto unisce differenti suggestioni ed è un mix di surreale e tragicomico da cui si resta piacevolmente sorpresi.(fs)