a cura di Claudia Bersani, Giancarlo Zappoli
L’edizione 2023 del Festival ha visto una considerevole affluenza di pubblico attento e partecipe nel seguire la ricca programmazione, articolata in varie sezioni. Il percorso che questo speciale segue è volto a individuare alcuni dei film che hanno avuto al loro centro vicende vissute da bambini o da giovani, messi a confronto con problematiche a cui spesso la violenza non è estranea, così come non lo sono le problematiche familiari. Si propongono in apertura alcuni film prodotti o coprodotti dall’Ucraina a cui è stato dato un considerevole spazio con la sezione «Wild Roses. Registe in Europa. Focus Ucraina»
DOMAŠNI IHRYB (Giochi casalinghi) di Alisa Kovalenko
Alina è una ventenne ucraina con una storia davvero non facile, già a partire dai genitori: un padre in prigione e una madre che vi è finita a sua volta e che, dopo essere stata rilasciata, ha messo al mondo ancora due figli per poi abbandonarla di nuovo. Alina ha però un obiettivo: entrare a far parte della Nazionale femminile ucraina di calcio. La regista la segue nella vita quotidiana e negli allenamenti, mostrandoci la forza di volontà di una giovane donna pronta a sacrifici anche pesanti pur di mantenere viva la propria passione. Ci viene così mostrato un versante familiare in cui è lei a doversi occupare dei fratellini (portandoli anche ai ritiri calcistici), di una nonna anziana e del padre alcolizzato dei suoi due fratelli, il quale pretende di vivere con loro senza mai contribuire al reddito familiare. Kovalenko, che conosce quel mondo grazie a una cugina che ne fa parte, ci mostra anche la durezza dell’impostazione di gioco da parte di chi allena. Ogni partita viene descritta come una battaglia da vincere. Alina deve quindi combattere su più fronti con in più il terrore che i Servizi Sociali le sottraggano i fratellini e tutto ciò sotto l’occhio di una telecamera impegnata a non sottacere nulla della sua difficile esistenza.
Claudia Bersani
CEJ DOŠČ NIKOLI NE SKINČYT’SJA (Questa pioggia non smetterà mai) di Alina Horlova
Andrij Sulejman è un ventenne nato in Siria da madre ucraina e padre curdo. Conosce quindi fin dai primi vagiti una condizione di persecuzione che lo ha spinto a divenire un volontario della Croce Rossa Internazionale. Horlova lo segue in questo documentario girato volutamente in bianco e nero affinché non si distinguano al primo sguardo i passaggi da un fronte di guerra a un altro. Utilizzando la terra e l’acqua come elementi simbolici e dividendo la sua opera in capitoli che partono dallo 0 e giungono fino al 9 per poi tornare allo 0, ci descrive un contesto internazionale filtrandolo attraverso la presenza di Andrij. Riesce così ad evidenziare la verità di ciò che Papa Francesco dice da tempo e che solo dopo il febbraio scorso molti sembrano aver finalmente compreso in Europa. È in atto ormai da tempo una terza guerra mondiale frammentata in diversi terreni di scontro in cui il militarismo da un lato e gli appartenenti alla società civile giocano ruoli opposti spesso tra l’indifferenza generale. I curdi in materia possono costituire purtroppo un ottimo esempio.
Giancarlo Zappoli
NAZOVNI (Fuori) di Ol’ha Žurba
Roma, un orfano senza famiglia viene seguito dalla telecamera sin da quando, a 13 anni, è stato uno dei volti noti della rivolta di piazza Maidan che ha portato a un profondo mutamento della politica ucraina. La regista ha continuato a seguirlo negli anni successivi. Quando non poteva essergli accanto, gli telefonava e le conversazioni, presentate rigorosamente su schermo nero, fanno da intermezzo nel percorso che lo vede crescere e, a 18 anni, essere allontanato dall’orfanotrofio. Da quel momento la sua è una vita nomade, con parenti che lo rifiutano e il fratello maggiore che lo ospita talvolta ma non senza conflitti. La droga è entrata a far parte della sua vita dall’età di 11 anni. Ol’ha Žurba ci mostra la vita di un ragazzo che, fra mille errori, conserva due desideri: avere una famiglia e un lavoro. Con questo ritratto di vita vissuta ci spinge a chiederci se la difesa della vita si debba limitare alla messa al mondo di un essere umano o non debba proseguire poi nel prendersene cura.
Giancarlo Zappoli
TRIESTE È BELLA DI NOTTE di Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Andrea Segre
Su un confine europeo, a pochi chilometri da Trieste
Quella che racconta il film-documentario di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre è la storia, documentata sia dalle immagini della cinepresa sia dagli smartphone dei protagonisti, di un viaggio allo stesso tempo collettivo e individuale, la cui durata può variare, e di molto, perché – come nel gioco dell’oca – all’improvviso puoi ritrovarti alla prima casella e devi ricominciare da zero.
L’avventura di questo viaggio della speranza non ha nulla a che vedere con un gioco, nonostante il film parli a più riprese di games, perché così vengono chiamati i tentativi dei migranti di raggiungere Trieste. Non sfide fasulle e sciocchi balli di gruppo, qui Tik Tok serve a documentare un percorso carico di insidie e di pericoli, affrontato con un carico troppo pesante, quello del cibo necessario durante il viaggio e quello della paura di essere scoperti e rimandati indietro. Il gioco che i migranti accettano e pagano sulla loro pelle parte dal bisogno estremo di riprovarci, perché tornare indietro non è la soluzione.
Il documentario riporta i racconti dei migranti (che con voce ferma e grande coraggio ripercorrono un’esperienza dolorosa sia sul piano fisico sia quello psicologico), mostra immagini di paesaggi impervi e situazioni difficili da superare, mentre nelle sale dei parlamenti o sullo schermo scorrono affermazioni, discorsi e dichiarazioni di politici e magistrati che cercano di giustificare decisioni ingiustificabili.
Musica etnica, ritmata e coinvolgente accompagna le immagini in un climax di dolore sempre più difficile da comprendere, ma i giovani migranti, accolti in sala con un applauso prolungato e affettuoso, hanno fortunatamente un lieto fine da raccontare.
Claudia Bersani
FUCKING BORNHOLM di Anna Kazejak
Due gruppi familiari polacchi in vacanza sull’isola danese di Bornholm. Maja con il marito Hubert e i loro due figli e Dawid, reduce da un recente divorzio, con il figlio Kaja e la nuova compagna Nina. Maja, Hubert e Dawid sono stati compagni di università e si frequentano da anni al punto che i figli li chiamano zii. Maja si trova in un periodo di insoddisfazione nei confronti della propria condizione di moglie e di madre. Le sue tensioni vengono acuite quando sembra che il figlio di Dawid abbia indotto uno dei suoi due bambini a compiere atti sessuali impropri.
Di film in cui quella che doveva essere una serena vacanza si trasforma in un inferno ne abbiamo già visti, ma il punto di vista in questa occasione è originale. Anna Kazejak sfrutta il plot di base (un gruppo un tempo affiatato in cui si inserisce la sconosciuta nuova compagna di Dawid) a cui aggiunge l’evento sconvolgente del presunto gioco sessuale tra un preadolescente e un bambino. Tutto ciò però è in gran parte funzionale a descrivere la personalità di Maja che sembra non poter più tornare ad essere la donna un tempo capace di sorrisi luminosi. Il rapporto ormai logoro con il marito che non arriva a una separazione, anche perché l’esempio del ménage di Dawid non è dei più attrattivi, si somma al sentirsi inadeguata come genitrice soprattutto dopo quanto è accaduto. Il sostegno del coniuge anche in quel campo sembra più velleitario che fattivo. Non c’è spettacolo naturale che tenga quando nel proprio intimo è scesa l’ombra della difficoltà relazionale. Kazejak però non è pessimista, sa come gestire i suoi protagonisti e pensa che una possibilità di ripresa sia possibile. Magari grazie a una cosiddetta trasgressione.
Giancarlo Zappoli
L’UOMO PIÙ FELICE DEL MONDO di Teona Strugar Mitevska
Sarajevo, tempo presente. Asja e Zoran, entrambi sulla quarantina, siedono uno davanti all’altro e rispondono, alternandosi e facendo suonare un campanello, alle molte domande che dovrebbero favorire la conoscenza reciproca durante uno speed dating. Attorno a loro, nella stessa situazione, molte altre coppie che hanno, tuttavia, un obiettivo diverso. Asja non cerca l’anima gemella, vuole incontrare il cecchino che le ha sparato ormai quasi trent’anni fa. Anche Zoran non cerca una nuova compagna ma il perdono, perché da quel terribile giorno non si dà pace. L’immagine di questa disperazione ci viene mostrata in apertura, quando sullo schermo compaiono due mani che cingono una testa di uomo vista da dietro e subito dopo sullo sfondo un cantiere abbandonato. Questo film non parla delle conseguenze della guerra ma della voglia di andare oltre, di ritrovare l’amore e dimenticare. Nelle sale, che hanno il nome di due città svizzere, i partecipanti allo speed dating ballano sulle note di un valzer viennese, cosa quasi anacronistica e buffa, in netto contrasto con il ballo libero che inscena Asja in una sala dove ci sono solo minorenni e dove lei non avrebbe nemmeno il permesso di stare. Il suo corpo sprigiona attraverso questa danza le emozioni a lungo trattenute.
Un film che rievoca pagine di un passato non così lontano che ancora oggi condiziona il nostro atteggiamento nei confronti dell’altro.
Claudia Bersani
IL CERCHIO di Sophie Chiarello
Cinque anni di riprese con un girato che sfiorava le 200 ore diventano un documentario che mostra degli esseri umani in formazione all’interno di una realtà che è stata comune a tutti: la scuola elementare. Di anno in anno assistiamo ai nuovi inserimenti, all’evoluzione del carattere, alle piccole e grandi gioie ma anche ai dolori e ai problemi che toccano ognuno. Sophie Chiarello compie una rilevazione che in passato è già stata sperimentata in altre realtà scolastiche non italiane e lo fa con grande sensibilità ponendosi realmente in ascolto di ciò che bambine e bambini hanno da esprimere. La sua telecamera non li mette per nulla in soggezione e le loro sono reazioni sempre più spontanee e, al contempo, meditate e sentite nell’intimo. Si tratta di un documentario da mostrare ai docenti, per confrontarsi con una metodologia, quella del cerchio di sedie come occasione di messa in comune periodica di pensieri, ma soprattutto ai genitori. È nei loro confronti che emergono valutazioni anche molto precise da parte di questi bambini che, come tutti i loro coetanei anche se a volte non sembra, ci guardano e ci giudicano.
Giancarlo Zappoli
METRONOM di Alexandru Belc
A Bucarest la diciassettenne Ana appartiene a una famiglia borghese da cui vuole progressivamente emanciparsi. Partecipa, senza il permesso dei genitori, ad una festicciola casalinga in cui si ascolta una radio che proviene dall’Ovest e trasmette musica proibita in Romania. A qualcuno viene l’idea di scrivere una lettera all’emittente. La Securitate però vigila e tutti i presenti finiscono al posto di polizia dove un funzionario vuole convincere Ana a denunciare gli altri.
Alexandru Belc affronta un periodo storico della Romania che ha conosciuto solo attraverso le narrazioni dei suoi genitori. Era il periodo in cui Radio Free Europe veniva ascoltata clandestinamente e il suo programma di musica “Metronom” era seguitissimo dai giovani e condotto da un rumeno fuoriuscito che verrà ucciso nel 1975. Il regista sceglie come protagonista una ragazza qualunque alle prese con i primi rapporti con l’altro sesso, in un clima politico-sociale in cui i silenzi prevalgono sulle parole che è sempre pericoloso pronunciare. È proprio dinanzi alle parole da scrivere che Ana si impunta non volendo tradire gli amici. La lettura di Belc è al contempo partecipe ed amara e ci ricorda come le dittature si ammantino dell’idea del bene del popolo per stendere una cappa di oppressione su tutte le generazioni.
Claudia Bersani
AURORA’S SUNRISE di Inna Sahakyan
Aurora Mardiganian aveva quattordici anni e viveva una vita serena con i propri familiari quando ebbe inizio il genocidio degli armeni. La tragedia colpì anche la sua famiglia ma lei, quattro anni dopo, riuscì ad arrivare a New York. La stampa si interessò alle sue vicende e Aurora, che già aveva una vocazione per la recitazione, venne chiamata ad interpretare se stessa nel film Auction of Souls nel 1919 promuovendo così una campagna di attenzione nei confronti dei sopravvissuti. Quel film sembrava definiti vamente scomparso ma il ritrovamento di 18 minuti di pellicola ha spinto la regista a rivisitare la storia di questa donna della quale esistevano dei video di interviste. La tecnica di animazione adottata, di alta qualità estetica, favorisce una fruizione anche da un pubblico di non addetti ai lavori (storici o cinematografici che siano) e contribuisce a non far morire il ricordo di un evento che ancora oggi il governo turco nega sia accaduto. La dichiarazione finale di Aurora aggiunge ulteriori elementi di riflessione che riguardano non solo gli armeni ma anche il popolo ebreo.
Giancarlo Zappoli
THE PERFECT NUMBER di Krysztof Zanussi
Joachim è un uomo vicino alla terza età che nella vita ha fatto ed ottenuto tutto ciò che ha voluto ed ora ha raggiunto un notevole livello di agiatezza. Incontra, dopo anni di non frequentazione, David, un giovane cugino che ha fatto rientro in Polonia dopo aver abbandonato una prestigiosa e ben remunerata carriera di matematico. Joachim e David sono entrambi convinti, ognuno a suo modo non foss’altro che per la diversità generazionale, di poter bastare a se stessi. Sono del tutto consapevolmente affetti (in particolare David) da una sorta di anedonia spirituale. Sono cioè incapaci di andare verso l’altro provandone un piacere che vada al di là dell’utilitarismo di base. Bastano a se stessi ma non possono fare a meno di riflettere sul loro ateismo soprattutto quando, in particolare per Joachim, questo deve confrontarsi con un’apparente ma salvifica casualità. Il giovane David si trova inoltre a mettersi in discussione nel momento in cui ritrova colei che era stata la sua compagna verso la quale prova pulsioni naturali che però non riescono a trasformarsi in quell’amore che invece prova per le tesi che vuole dimostrare in ambito matematico a una commissione di cui teme il giudizio. Zanussi (84 anni) torna così ad affrontare i temi che da sempre sente come vicini al suo modo di fare cinema.
Giancarlo Zappoli