Recensione Serie DEPT.Q

Genere: Thriller/Poliziesco

Regia: Scott Frank

Soggetto e sceneggiatura: Chandni Lakhani e Scott Frank

Interpreti: Matthew Goode (Detective Ispettore Capo Carl Morck), Chloe Pirrie (Procuratrice Merritt Lingard), Jamie Sives (Detective Ispettore James Hardy), Alexej Manvelov (Akram Salim), Leah Byrne (Ispettrice Rose Dickson), Kate Dickie (Sovrintendente Capo Moira Jacobson).

Durata: 65 minuti

Origine: Regno Unito

Anno: 2025

Piattaforma: Netflix

 

Leith Park – Edimburgo. Rispondendo alla chiamata di un agente semplice, i detective Carl Morck e James Hardy arrivano sulla scena di un crimine e vengono attaccati da un uomo mascherato con un passamontagna, che spara ai tre uccidendo l’agente, rendendo paralizzato Hardy e ferendo più lievemente Morck.

Quattro mesi dopo, Carl, il cui brutto carattere è peggiorato in seguito all’incidente, torna al lavoro e viene messo al comando di un nuovo dipartimento di polizia, il “Dipartimento Q”, dedicato a vecchi casi rimasti irrisolti. Nonostante un budget sostanzioso, Carl si ritrova confinato nel seminterrato della stazione di polizia, con un assistente senza distintivo, l’ex poliziotto siriano Akram Salim, e la collega Rose Dickson, attualmente senza casi perché reduce da un esaurimento nervoso. I tre iniziano a indagare sul caso di Merritt Lingard, procuratrice scomparsa da cinque anni.

 

Dall’originaria Danimarca, la serie, tratta dai romanzi dello scrittore Jussi Adler-Olsen, viene spostata in una Edimburgo in cui quasi tutti i personaggi sono depressi e sull’orlo del crollo nervoso, ma sempre con la battuta pronta, in equilibrio perfetto tra fatalismo e crudeltà, per far godere allo spettatore quell’atmosfera tipicamente scorretta propria del Regno Unito. Oltre alla notevole qualità della scrittura, la serie si distingue anche per la ricercatezza della fotografia e della ricostruzione di interni ed esterni: le case dei poliziotti, le scrivanie degli uffici, le abitazioni degli indiziati sanno di vissuto, di disordine e di uno “strato polveroso” che, insieme al cielo plumbeo di Edimburgo, creano la perfetta ambientazione da crime inglese.

La produzione vanta poi un ottimo cast, fuori dagli schemi: il protagonista Matthew Goode, che ha una solida carriera alle spalle ma la cui fama non ha mai oltrepassato i confini della Gran Bretagna, finalmente ottiene un ruolo che può dargli il giusto responso critico anche a livello internazionale, dando vita a un detective misantropo e insopportabile ma allo stesso tempo irresistibile. I suoi comprimari – in particolare Akram, il siriano gentile che chiede sempre “permesso”, ma sa bene cosa sia la tortura, e Rose, col cuore in fiamme come i suoi ricci – sono un mix intrigante di volti poco noti con lineamenti fuori dal canonico e uniformante metro estetico delle serie tv: nel dipartimento di polizia e nelle aule di tribunale non sono tutti belli in modo convenzionale, non li abbiamo già visti da qualche parte, perciò è più facile immergersi nella storia e affezionarsi a personaggi.

Certamente, nelle puntate successive sarà facile seguire questo manipolo di anime sgretolate che attendono di ricomporsi, magari risolvendo un caso che sembrava chiuso, per salvare una donna e forse anche per salvare se stessi.

 

 

Francesca Savino

 

Voto: ★★★★